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"Libera Chiosa in libero Stato."

Charles de Montalembert

Dasvidaniya al-Nusra!

I Presidenti degli Stati del vertice di Astana.

Dopo sette anni di guerra civile, la Siria sembra essere a un passo dalla conclusione del conflitto che ha lacerato il Paese causando mezzo milione di morti e oltre dodici milioni di sfollati. A quanto pare sarà la città di Iblid il teatro dove auspicabilmente si terrà l’ultimo atto della campagna militare delle truppe governative contro quel che rimane dello sfilacciato Free Syrian Army. Una Ringkomposition perfetta, se si pensa che proprio nella provincia di Iblid iniziarono a raccogliersi le milizie anti-Assad nel lontano 2011.

Chi ha buona memoria ricorderà che la città in ben due occasioni balzò all’onore delle cronache in Occidente: la prima volta nel 2015, quando l’esercito di Damasco fu cinto d’assedio e costretto alla ritirata dalle truppe ribelli sostenute da Erdogan e dai Sauditi; la seconda nel 2016, quando un rapporto di Amnesty International mise in luce le violenze perpetrate dallo Stato Islamico nel governatorato di Iblid, divenuta nel frattempo una roccaforte dei jihadisti. Inutile dire che questo rapporto fu colto al volo da Hollande e Obama: finalmente corpi armati francesi e americani ebbero il via libera per sbarcare sul suolo siriano. Era dal 2013 infatti che gli USA, con la pantomima delle armi chimiche di Assad, cercavano di far capolino sulle coste a sud della Turchia, ma in quell’occasione la diplomazia aveva avuto la meglio e le velleità interventiste del meritatissimo premio Nobel per la Pace erano state stroncate sul nascere.

Certo, a un lettore curioso potrebbe sorgere qualche dubbio sulla natura della presenza franco-americana a nord di Damasco: formalmente l’obiettivo era quello di sgominare i macellai dell’ISIS nel nord-ovest del Paese ma, allo stesso tempo, Washington era stato il principale promotore della mancata azione militare contro lo “stato canaglia” di Assad. Insomma, viene da chiedersi da che parte stessero i contingenti di Parigi e Washington, visto che si trovavano i fondamentalisti islamici da una parte e dall’altra l’esercito della nazione che solo 18 mesi prima avevano minacciato di invadere. Da qui il colpo di genio, l’ideazione di un fantomatico terzo polo che la stampa si affrettò a corroborare agli occhi dell’opinione pubblica occidentale coniando la fortunata espressione “ribelli moderati”.

A onor del vero, all’interno del Free Syrian Army esiste effettivamente una frangia “moderata” il cui scopo è quello di scalzare il partito Ba’th al potere senza voler imporre al suo posto una teocrazia. Stiamo parlando delle Brigate di Unità Nazionale, che comprendono varie minoranze religiose quali Cristiani, Drusi, Ismaeliti e Alauiti. Peccato che, a voler essere generosi, queste brigate arrivino a costituire tra il 10 e il 15% delle milizie ribelli. Il resto dell’esercito è costituito da vari gruppi di jihadisti sunniti tra i quali spicca per numero il Fronte al-Nusra, nientemeno che la filiale siriana di al-Qaida. Viene dunque difficile inquadrare le posizioni anti-Assad degli Stati Uniti se non in un’ottica di mero contrasto sullo scacchiere geopolitico a un asse di alleanze che parte da Damasco e arriva a Mosca. Specialmente a partire da quando il premio Pulitzer Seymour Hersh fugò ogni dubbio sulla storiella delle armi chimiche con un’inchiesta [1] che non ebbe sui media mainstream neanche un decimo della risonanza che meritava.

Ma torniamo a Idlib e alla sua storia più recente, per provare a capire lo scenario che si delineerà nelle prossime settimane.
A partire dal 2016, le sorti della guerra che inizialmente pendevano a favore del FSA furono drasticamente ribaltate. Il sostegno economico fornito inizialmente dai petrodollari degli emirati si andò riducendo a seguito dello scoppio del conflitto civile in Yemen, la Russia scese in campo militarmente a fianco di Assad e la posizione di Erdogan nei confronti del vicino a sud mutò radicalmente. Il Sultano, a quanto pare, non aveva gradito granché la reazione occidentale durante il fallito golpe militare di luglio e decise di legarsi al dito il ricordo di quelle ore passate in aereo senza che nessun Paese europeo concedesse il permesso di atterraggio. Si posero così le basi per il vertice di Astana, durante il quale Russia, Iran e una Turchia improvvisamente lontana dall’alleanza atlantica stabilirono una road map per il conseguimento della pace in Siria, anche attraverso l’istituzione di alcune de-escalation zone in cui potessero raccogliersi i civili sfollati dai combattimenti. Ebbene, Iblid è proprio al centro di una di queste zone ed è divenuta uno snodo centrale per coloro che vogliono fuggire dalla guerra facendo tappa in Turchia. La città stessa ha accolto negli scorsi anni circa tre milioni di rifugiati, triplicando il milione e mezzo di abitanti che tutta la regione contava solo nel 2010.

Se l’enorme flusso di rifugiati si potesse considerare un problema da poco, occorre puntualizzare che Iblid è anche diventata l’ultima roccaforte per i miliziani anti-Assad costretti alla ritirata dall’avanzata dei carri armati russi e dell’esercito lealista. E così il sovraffollato capoluogo è stato tutt’altro che lontano dagli scontri negli ultimi due anni, anzi è stato teatro di numerose lotte intestine fra le varie fazioni del FSA. In maniera abbastanza prevedibile ne è uscito vincitore il Fronte al-Nusra, che, come già accennato, costituisce il gruppo più numeroso di jihadisti sunniti all’interno dello schieramento ribelle nonché l'unico disposto a reclutare una buona parte dei combattenti superstiti dello Stato Islamico.  

Ora, è abbastanza chiaro che la situazione già così di per sé è un bel ginepraio: le condizioni su cui si basavano gli accordi di Astana, ora che è rimasta solo Iblid come ultima roccaforte ribelle, sono venute a mancare. Naturalmente Mosca e Teheran non accettano compromessi e vogliono che Assad torni in controllo di tutta la regione dopo aver eliminato qualsiasi resistenza islamista. Ankara, al contempo, teme fortemente l’esodo che esploderebbe con un attacco diretto alla città: in Turchia attualmente risiedono già più di tre milioni di rifugiati siriani e la possibilità di accoglierne altri tre, data anche la congiuntura non particolarmente favorevole in cui versa l’economia del Paese, non viene decisamente caldeggiata dal governo di Erdogan. E se tutto questo non bastasse, nel momento più difficile e più decisivo della guerra civile si sono rifatti vivi dei giocatori che sembravano oramai esser stati messi in panchina: USA, Inghilterra e Francia. Curiosità: insieme alle potenze occidentali è ritornata a galla pure la storia delle armi chimiche. Un tempismo così perfetto che i più maliziosi potrebbero financo pensare che si tratti di un’ennesima montatura per intervenire militarmente contro i successi dell’alleanza tra Assad, Rouhani e Putin.

In un panorama di interessi così variegato e complesso, la patata bollente ora come ora tocca a Erdogan. Le sue opzioni infatti si riducono sostanzialmente a due possibilità: ingoiare il rospo della caduta di Iblid, magari venendo a patti con Russi e Iraniani per limitare le vittime tra i civili e l’esodo dei superstiti verso la Cappadocia, oppure mostrare i denti e rientrare nella sfera d’influenza atlantica nella speranza (ahimè, ben riposta) di un intervento NATO a Iblid. Magari inscenando la solita farsa delle testate chimiche, che finora ha funzionato quasi sempre.

Ai siriani non resta che sperare che il Sultano scelga con saggezza, altrimenti dopo aver intravisto la fine della guerra civile grazie all’appoggio dei dispotici tiranni d’Oriente, potrebbero dover affrontare altri anni di sanguinose missioni di pace grazie ai paladini della democrazia d’Occidente.  

 

Fonti

[1] Siria: "Furono i ribelli ad usare il gas per convincere gli Usa ad attaccare”

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