
Questo è un articolo un po' diverso dal solito. Un articolo scritto di getto, sull'onda dell'emotività, non particolarmente meditato. Vogliano scusarmi i lettori se mi concedo questo sfogo di stampo adolescenziale: del resto non è neanche possibile buttar giù nulla di serio quando da giorni ogni spasmo vitale è teso al solo obiettivo della digestione.
Avete presente il turbo-mondialismo apolide? Sì, via, quell'espressione (portata in auge dallo sfottutissimo Fusaro) che più o meno ragionevolmente provoca il sorriso sul volto dei più e che spesso e volentieri è oggetto delle furenti invettive degli autori della Chiosa. Beh, ecco, vi devo fare una grossa confessione a riguardo: la prima vittima dell'odiosa sindrome dell’apolidia è proprio il sottoscritto. Io sono nato a Torino, ho vissuto per 18 anni a Siena e per 7 anni a Pisa, ho una madre veneta e un padre campano e no, con mio grande rammarico, non mi sento legato a nessuna città in particolare. Vuoi l'infanzia da figlio di “stranieri” in una città non proprio nota per la sua inclusività, vuoi l'aver stretto amicizie fin dalla più tenera età in giro per lo stivale, ma io proprio non ce la faccio a identificare alcun posto come casa in senso lato. Sarà anche per questo che ho sviluppato un certo fiero senso di appartenenza alla toscanità e, in misura ancor più pronunciata, un sano amore per l'Italia e chi la abita. Qualcuno potrebbe tacciarmi di patriottismo: ben venga, non potrei che esserne lusingato.
Ora che ho sputato il rospo e che ho fatto questa necessaria premessa, potrei finalmente dar adito al mio sfogo. Potrei. E invece no, vi fornisco un altro po' di contesto, tanto oramai siamo alle ciarle e ogni velleità di approfondimento impegnato ha fatto la fine dei buoni propositi per l'anno corrente.
Come ogni anno nelle vacanze di Natale, mi trovo a Torre Orsaia, ameno paesino di duemila anime sui colli del Cilento in cui risiedono buona parte dei miei parenti dal lato paterno. Insomma, tanto per capirci, il classico paesino del Sud Italia in cui si lascia la porta aperta e dove le comari affacciate alle finestre propongono a ogni passante dai lineamenti poco noti il proverbiale motto “A chi si' figlio?” Ebbene, in realtà come questa (notoriamente in via d'estinzione) sopravvivono con tenacia agli assalti della modernità alcune vestigia della società preindustriale: le grandi famiglie, i cui singoli nuclei rimangono strettamente legati fra loro per generazioni; la tendenziale diffidenza verso tutto ciò che è estraneo alla tradizione, di qualunque tradizione si parli; una sedimentata simpatia per un'autarchia di gusto medievaleggiante, che porta molti a coltivare un pezzo di terra pur avendo a disposizione un alimentari sotto casa; una comprensione e un'accettazione della vita, e quindi della morte, con una serenità e una semplicità che Socrate scansati.
Veniamo dunque a noi: la vita qui è praticamente una sequenza dell'Albero degli zoccoli, specie nella stagione invernale in cui è l’attività venatoria e non quella balneare a impegnare il tempo libero. Oggi però ho avuto il piacere di godermi proprio il più bucolico di tutti i dì di festa: quello dedicato alla macellazione del maiale e alla preparazione di salumi per tutto l'anno a venire. Tanto per perpetrare l'analogia con il capolavoro di Olmi, però, la giornata si è conclusa con grande amarezza: uno zio (a voler essere pignoli, uno dei fratelli di mia nonna) è stato ricoverato d'urgenza in ospedale per l’improvviso aggravarsi delle sue condizioni di salute. Condizioni piuttosto precarie, ahimè, poiché da qualche mese è divorato da un tumore di cui sono poco chiare le origini ma fin troppo evidenti gli effetti terribili. Nel giro di poche ore, all'interno del vasto cerchio familiare, il tam-tam telefonico ha messo tutti all'erta e più delegazioni si sono preparate a partire alla volta dell'ospedale situato a una quarantina di minuti d'auto dal paese. Occhio che sull'attenti non si sono messi solo figli e fratelli, e neppure soltanto i nipoti: la chiamata alla solidarietà ha raggiunto in men che non si dica persino un figlio di un figlio di una sorella dello sventurato (nella fattispecie, alludo proprio a me medesimo). Tuttavia poco dopo che i primi si sono infilati in macchina, è arrivata la bella notizia: lo zio sarebbe stato dimesso in nottata e chi aveva temuto il peggio ha finalmente potuto tirare un sospiro di sollievo.
Per me che almeno geograficamente sono uno spiantato, come ho chiarito nella premessa, assistere al manifestarsi di un tale spirito comunitario è semplicemente commovente. Specie quando si ha a che fare con la morte, quella roba che la società moderna ci ha insegnato a disconoscere e rifiutare. Come scriveva Massimo Fini già nell'85, infatti, la società industriale ha pornografizzato la morte, l'ha resa qualcosa di alieno, intoccabile e persino impronunciabile. Oggiidì la morte è diventata qualcosa che non ci appartiene più e che pertanto non possiamo proprio accettare: uno spiacevole inconveniente che deve porre fine all'esistenza, niente di più. L'immagine di un anziano che spira circondato dai propri cari, accettando il fato perché conscio di lasciar dietro di sé un gruppo sociale su cui ha lasciato un'impronta indelebile, è pura nostalgia di un'Arcadia che ci sembra remotissima.
Non parliamo poi della vecchiaia, divenuta ormai una disgrazia anche peggiore della morte nell'austero efficientismo sociale in cui ci beiamo tutti i giorni. Qui, nel paese, gli anziani con le unghie e con i denti si aggrappano al proprio ruolo sociale, accudiscono ancora e ancora vengono accuditi. In città invece le cose cambiano e anche solo per integrare un anziano nei ritmi forsennati di una famiglia mono-nucleare serve un grande sforzo di volontà. Grazie al cielo c'è chi miracolosamente ci riesce e per questo non merita altro che tutto il mio rispetto.
Ma allora dov’è che stiamo andando? Io non voglio farmi promotore di una sterile critica alla modernità in ricordo di una fantomatica età dell'oro che forse non è mai esistita e che è certamente irraggiungibile. Voglio solo condividere con voi una riflessione, fuori tempo massimo, sull'importanza di tutto ciò che oggi stiamo calpestando e che progettiamo di annichilire col sorriso sulle labbra. Quella solidarietà, quella compartecipazione, quel senso di appartenenza che stasera erano pronti a sostenere uno zio malato hanno un nome: si chiamano radici. E sono proprio queste le radici che ogni giorno la spinta centrifuga della mondializzazione recide a colpi d’accetta, allettando i sacrosanti aneliti d'indipendenza dei più giovani con la carota del noborderismo multiculturalista e nascondendo dietro la schiena il bastone dell'alienazione più assoluta.
Non fraintendetemi: io non prèdico un ritorno alla società comunale del '300, circondando ogni villaggio con mura e fossati. Sono ben consapevole della ricchezza economica e culturale derivante dal transito di idee e merci, e non sarei affatto disposto a privarmi di nessuna delle due. Altra cosa però, ed è qui che punta il mio indice, è l’organica opera di delegittimazione morale e disgregazione materiale delle radici che dicevamo, che sembra fare da preludio a un futuro prossimo da distopia letteraria novecentesca. I guru del neoliberismo che propugnano la bontà del nomadismo spensierato in un mondo senza frontiere, loro sono i veri bersagli della mia invettiva, non tanto perché assecondano un progetto economico insostenibile che stuzzica le ambizioni di pochi nei palazzi di vetro, ma perché obnubilano la consapevolezza storica dell’importanza di provare un senso di appartenenza, di esser legati a una comunità, insomma di avere delle radici. Bisogna essere degli imbecilli o degli ipocriti per non considerare le conseguenze devastanti del disincentivare i più, e in special modo i giovani, dal provare a costruirsi qualcosa di così genuinamente umano.
Beh, va bene, mi sono sfogato. Perdonate ancora il tono moraleggiante, ma credetemi: anche senza addentrarsi puntualmente nell'analisi politica o economica, queste chiacchiere hanno un riscontro dannatamente concreto.
Grazie per averci letto fino ad oggi, fate buone feste. E auguri!
Anche al signor Bezos.