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“Popolo, ricordati che se nella Chiosa Pubblica la giustizia non regna con impero assoluto, la libertà non è che un vano nome!”

Robespierre

Che la piazza si sGretoli

Trovate le differenze.

Venerdì mattina ho passato un paio d’ore in Piazza XX Settembre a Pisa tra i giovani manifestanti del Global Strike for Future. Come in altre 1800 piazze in giro per il mondo, anche a Pisa gli studenti di scuole e università sono scesi in piazza contro l’indifferenza ai cambiamenti climatici e in favore di uno sviluppo più ecosostenibile. Benissimo. E quindi?

Via, concedetemi questa provocazione senza darmi subito del cinico. Non è in discussione il fatto che la sensibilizzazione delle nuove generazioni a una tematica come quella del riscaldamento globale sia un obiettivo nobile e importante. Il punto è che, come spesso accade, slogan e striscioni rischiano di far sfuggire la complessità del problema che ci si propone di affrontare. O peggio, sviano l’attenzione dalle questioni più fondamentali che sono alla radice di questo e altri drammi che vive la società odierna.

Un primo elemento delle piazze di oggi che inevitabilmente lascia un po’ perplessi è il leader indiscusso di quest’ondata ecologista: Greta Thunberg. Questa sedicenne svedese è assurta all’onore delle cronache per la prima volta nell’agosto 2018 grazie alle sue proteste davanti al Parlamento di Stoccolma. Poi, nel giro di pochi mesi, ha conquistato le prime pagine dei giornali di mezzo mondo ed è perfino riuscita a dicembre a calcare il palco della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Un’escalation abbastanza fuori dal comune, visto e considerato che in giro non sono proprio quattro gatti gli attivisti che si prodigano per portare avanti le battaglie ambientaliste.

In effetti, chi si è preso la briga di indagare un po’ sul conto di questa sedicente paladina del pianeta ha trovato pane per i propri denti. Greta infatti è stata spalleggiata fin dal primissimo giorno della sua protesta al Riksdag da un certo Ingmar Rentzhog, che è niente meno che il direttore del think tank Global Utmaning. Chi come me non conoscesse lo svedese sarà lieto di scoprire che l’espressione vuol dire esattamente “Sfida Globale.” Qualche lettore avrà già iniziato a sentire un odore familiare, ma voglio fugare ogni dubbio anche a chi avesse il naso meno allenato: questa fondazione è stata creata e modellata da Kristina Persson [1], una miliardaria svedese che fino al 2016 ha ricoperto il ruolo di Ministro allo Sviluppo Strategico. Socialdemocratica DOC, naturalmente.
La nostra Greta insomma si configura come il testimonial dal volto innocente di un raffinato piano di marketing, studiato nei minimi dettagli dall’abilissimo Rentzhog per promuovere la sua start-up We Do Not Have Time. Insomma per battere cassa. Certo, non è che servissero davvero tutte ‘ste indagini per capire che c’è qualcuno dietro a una ragazzina che dall’oggi al domani passa dal marinare la scuola allo “sfidare i potenti del mondo” [2]. Però, già che c’eravamo, valeva la pena fare un po’ di chiarezza.

Ma veniamo alla vera bega della piazza di oggi, quella forse che più mi ha turbato. Di tanti ragazzi che manifestavano con sincera commozione per salvaguardare il destino del nostro pianeta, non ne ho trovato uno che mettesse in discussione i paradigmi del modello di sviluppo in cui viviamo. Credo, spero, di non aver cercato abbastanza, ma rimane il fatto che la quasi totalità di striscioni e cartelli rappresentava il pianeta Terra surriscaldato dai gas serra e avvelenato dall’inquinamento. Il pianeta Terra, sempre e solo lui.
Parliamoci chiaro, la mia non è una critica stilistica al simbolo scelto da chi ha deciso di scendere in strada con le migliori intenzioni. La mia invettiva serve a rimarcare come purtroppo la piazza del Friday for Future sia una piazza che non si pone proprio l’obiettivo di contestare i fondamenti che portano il mondo sull’orlo della catastrofe ambientale. La corsa totale e senza confini della società dell’iperconsumo non viene proprio messa in discussione. Anzi, le poche decine di ragazzi con cui ho avuto la fortuna di parlare abbracciavano in blocco la narrazione globalista che ci vuole tutti cittadini del mondo, uniti nel voler contrastare le “cattive abitudini” che ci tolgono il futuro.

Ma qui altro che cattive abitudini. È triste dirlo, ma la campagna per la sensibilizzazione del singolo, sebbene sia giusta e sacrosanta, da sola non serve a nulla. L’impatto ambientale di un milione di cittadini che decidono di andare al lavoro in bicicletta anziché in auto è svariati ordini di grandezza inferiore a quello dell’ennesimo viaggio di una nave cargo tra Shenzen e San Francisco. Non sto esagerando, quando si parla di emissioni di gas serra le buone abitudini dei bravi cittadini generano benefici del tutto trascurabili: se anche tutta l'umanità iniziasse ad adottare i comportamenti più ecosostenibili a livello personale, da un'attenta differenziata all'uso sistematico dei mezzi pubblici, l'effetto sarebbe decisamente più modesto di quello dovuto alla chiusura di una sola multinazionale che genera flussi di merci in tutto il mondo. L’unico modo per cambiare davvero qualcosa è andare ad alterare le dinamiche economiche intraprese dalla nostra civiltà. E qui casca tragicamente l’asino.

C’è poi da dire che perseguire una campagna ecologista su scala mondiale contro l’innalzamento delle temperature ha due controindicazioni molto rilevanti.
In primis sottrae energie alle vere battaglie ambientaliste, quelle locali che affrontano i problemi più tangibili e concreti. Sto pensando ai sudamericani che lottano per l’acqua potabile [3] o agli africani che combattono il gas flaring [4]. Ma anche agli attivisti italiani che si battono ogni giorno per scongiurare o limitare i danni di una miriade di situazione critiche lontane dai riflettori: dalle monocolture intensive fuori regola allo smaltimento abusivo dei rifiuti.
In secondo luogo, è una battaglia persa. Fatta l’eccezione degli Stati Uniti (che meritano sempre una menzione d’onore quando si parla di sostenibilità), i principali responsabili delle emissioni di gas serra non sono più Paesi del cosiddetto primo mondo. E legittimamente a questi Paesi "in via di sviluppo" delle proteste dei giovani occidentali non gliene potrebbe fregare di meno. Tanto per esser chiari, la Cina che oggi è responsabile di circa un quinto di tutta la produzione antropica annuale di CO2, sta andando incontro a un massiccio piano di ecologizzazione del proprio sistema produttivo. Ma non certo perché glielo chiediamo noi, è semplicemente un ottimo business e un bel volano per risollevare la domanda interna. Ma gli altri Paesi del secondo e terzo mondo che ancora vengono trainati dal carbone, secondo quale principio dovrebbero dar retta alle parole della candida Greta? Perché mai gli indiani dovrebbero moderare le polveri sottili? Perché  gli indonesiani dovrebbero limitare la deforestazione? E non venitemi a dire che servirebbe soprattutto a loro stessi: noi campioni della civiltà ci siamo divorati tutto quel che si poteva per oltre un secolo senza farci alcuno scrupolo di coscienza.

La piazza di Greta è una bella piazza. Va compresa e rispettata. Compito di una politica davvero coraggiosa sarebbe quello di convogliarne la forza e la vitalità verso le contraddizioni sempre più esplicite della società in cui viviamo. Altrimenti si rischia che l’esperienza dell’altro ieri si trasformi nell’ennesima scena da film di Elio Petri: l’agghiacciante spettacolo del Potere che manifesta contro il Potere.

 

Fonti

[1] Pagina Wikipedia di Kristina Persson.

[2] Sebbene possa far sorridere, scoprirete che sono poche le testate che non hanno bollato così l’incontro di Greta a Davos con i “potenti” del World Economic Forum. Il guaio è che la cosa non fa ridere solo voi, ma anche i potenti.

[3] Il Sudamerica, pur disponendo delle più abbondanti riserve accessibili d’acqua dolce al mondo, è andato incontro a un irreparabile inquinamento delle falde acquifere. Oggi l’acqua corrente potabile è appannaggio di circa metà della popolazione. Mappa di Nature che mostra le possibilità di accesso all'acqua corrente potabile.

[4] Il gas flaring è la pratica che prevede di bruciare a cielo aperto il gas naturale proveniente dal sottosuolo come sottoprodotto dell’estrazione del greggio.

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