
Un recente studio* sulla percezione del fenomeno dell’immigrazione da parte delle popolazioni europee mostra come l’Italia sia il Paese in cui il tasso percepito di presenza straniera si discosta di più da quello reale. A fronte di una presenza reale (ufficiale: chi scrive dubita che esistano stime precise del numero di clandestini sul suolo nazionale) del 7%, quella percepita è in effetti di circa 24% - più del triplo se vogliamo ragionare in termini relativi.
La notizia, com’era facilmente immaginabile, ha scatenato orde di benpensanti sulle reti sociali (come l’Annuario o il Cinguettante), che si sono affrettati a condannare l’ignoranza e l’ostilità verso il diverso della popolazione italiana.
Non che i nostri amici indignados abbiano tutti i torti: in nessun Paese dell’Unione Europea lo scostamento assoluto fra presenza reale e percepita è più importante che nel nostro. Certo, in tutti i Paesi (tranne l’Estonia - e non sappiamo perché - e la Svezia - e sappiamo perché) lo scostamento è notevole. In diversi Paesi dell’Est (Bulgaria, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Ungheria) lo scostamento relativo è paragonabile o maggiore al nostro. Sono da segnalare anche Portogallo, Irlanda e Spagna che pure hanno uno scostamento relativo simile al nostro (percepiscono cioè circa il triplo del numero di immigrati reale).
In prima analisi, non è difficile rendersi conto che i Paesi di cui sopra si dividono in due gruppi: da un lato i Paesi membri - o culturalmente affini - del gruppo di Visegrád, dall’altro i famosi “PIIGS” (la Grecia, che non ho citato, ha pure uno scarto consistente). Nel primo gruppo, il tasso di immigrazione reale è molto basso, come conseguenza delle scelte governative di chiusura all’immigrazione (e all’accoglienza dei rifugiati), ma il tasso percepito è più alto… paradossalmente per lo stesso motivo, ossia per l’importanza del tema della chiusura delle frontiere nel dibattito pubblico. Il secondo gruppo è culturalmente più eterogeneo, ma ha un denominatore comune economico-sociale - l’impatto della crisi del 2008 sulla crescita economica e, più nello specifico, sull’occupazione e i salari. Ora, l’effetto sulla disposizione all’accoglienza e sulla percezione degli immigrati di un alto tasso di disoccupazione e disagio sociale dovrebbe essere ovvio per tutti. Dovrebbe.
Se ci concentriamo sul dato italiano, notiamo due aspetti: il primo (banale e in linea con la considerazione sui PIIGS) è che le categorie socio-economicamente più svantaggiate (con un basso titolo di studio e un basso reddito) hanno una percezione più distorta del fenomeno migratorio. Il secondo (per nulla banale, almeno per chi scrive) riguarda la differenza fra città e campagna. In città il tasso di presenza straniera percepito arriva al 31% della popolazione (uno su tre, un numero enorme) mentre in campagna si ferma al 22%. Questo secondo aspetto è in totale controtendenza col primo: in città, dove risiedono persone generalmente più agiate e istruite che nella campagna, la percezione è altissima. Certamente, anche il tasso di presenza reale è più alto (il dato non è presente nell’analisi dell’Istituto Cattaneo), ma questo non può spiegare l’enormità della differenza.
Cosa fa sì che un abitante di una città italiana creda che un terzo della popolazione sia straniera, mentre l’ignorante e povero campagnolo ne vede “solo” uno su cinque?
La grande differenza fra presenza immigratoria in campagna e in città è dovuta all’occupazione dello spazio pubblico. In molte città italiane, stazioni, vie e piazze sono perennemente occupate da stranieri la cui presenza non può non dare nell’occhio. Sia chiaro, stare seduto su una panchina non è un reato e l’inattività di molti stranieri è dovuta più all’inadeguatezza del sistema dell’accoglienza che alla fainéantise degli immigrati (ma questa è un’altra storia).
Ma la presenza fisica negli spazi pubblici di una categoria sociale si riflette nella percezione che le altre categorie hanno della sua consistenza. Se quando cammino per strada vedo un bidello o un idraulico, non vi presto alcuna attenzione. Se vedo, poniamo, un Sikh vestito in abiti tradizionali, la mia mente registra l’informazione e la ricorda più a lungo. Non c’è una logica razzista o discriminatoria dietro questo fatto: la nostra percezione delle minoranze è distorta dal fatto che… sono minoranze. In Italia questo fatto, del tutto naturale e per nulla indice di razzismo, è amplificato dalla mancanza di un sistema efficace di distribuzione e integrazione degli immigrati, ridotti, spesso loro malgrado, a bighellonare in piazze e stazioni.
Dall’analisi dello stesso dato si può dunque giungere a due conclusioni politiche radicalmente diverse. Si può riporre una cieca fiducia nel sistema attuale e cercare di cambiare il popolo, additandone il razzismo come causa di tutti i mali. Oppure si possono lasciare in pace i propri connazionali. E cercare piuttosto di cambiare un sistema le cui falle stanno producendo gravi danni - fra i quali dobbiamo citare episodi di razzismo vero anziché presunto. Al lettore giudicare quale delle due opzioni sia quella da percorrere. Magari tenendo a mente la storia della luna e del dito.
* Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione, Istituto Cattaneo, agosto 2018