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"Non con l'oro, ma col ferro va riscattata la Chiosa Pubblica!"

Marco Furio Camillo

La Grande Guerra, 100 anni dopo

Campo di papaveri, simbolo dei caduti della Prima Guerra Mondiale

Lo scorso 11 Novembre è stato il centenario della fine della Grande Guerra. Le più importanti celebrazioni si sono tenute a Parigi dove molti capi di Stato, con Mattarella in rappresentanza dell'Italia, si sono riuniti per commemorare l'evento [1].
C'è da dire però che in Italia questa cerimonia è salita agli onori della cronaca più per i battibecchi tra Trump e Macron che non per l'evento in sé. D'altro canto la ricorrenza con più significato per gli italiani è quella del 4 Novembre, anniversario della firma dell'armistizio di Villa Giusti tra Impero austro-ungarico e Intesa che mise fine alla guerra sul fronte italiano.
Questa discordanza risulta giustificata soprattutto se si ha in mente la fortunata interpretazione, che ha sempre soddisfatto sia élite che popolo, della guerra del 15-18 come 4ª Guerra d'Indipendenza contro gli austriaci e tappa finale del Risorgimento italiano. Obiettivo che tutto sommato risulta molto più digeribile come movente dell'iniziativa militare se lo si confronta con quelli degli altri stati, che non facevano certo mistero delle loro scioviniste ambizioni.

Gli austriaci volevano impedire ad ogni costo la formazione di una Jugoslavia sotto l'egida serba e soffocare ogni velleità di indipendenza dei popoli slavi balcanici nel contesto del vuoto di potere lasciato dall'Impero ottomano.
La Russia si opponeva a questi piani in virtù del ruolo di grande protettrice panslava, ravvivando anche le mai sopite mire degli Zar sulla "città dei Cesari" o Zarigrad (nome russo di Instanbul), necessaria per garantire l'accesso della Russia al Mediterraneo.
Gli ottomani parteciparono alla guerra con il solo scopo di rimanere nel concerto europeo delle grandi potenze in un ultimo disperato tentativo del governo dei Giovani turchi di rinvigorire un impero da tempo avviato al collasso, finendo poi per pagare il prezzo più alto in termini di vite umane.
Unica repubblica tra i belligeranti allo scoppio del conflitto, la Francia non fu risparmiata dal giogo del più becero nazionalismo: il caso Dreyfus di quegli anni è il più chiaro esempio di come la Revanche francese nei confronti dell'eterno nemico tedesco, causata dall'ancora cocente umiliazione nella guerra franco-prussiana, fosse un’ossessione ben radicata nella società transalpina.
Anche i britannici erano preoccupati per una rottura dell'equilibrio nel continente a favore dell'Impero germanico che potesse minacciare la supremazia marittima albionica, come successo un secolo prima con l'ascesa della Francia napoleonica.
Senza dubbio lo scettro del sentimento imperialista spetta sempre al Reich, il secondo in questo caso. Infatti i tedeschi sognavano una "pax prussiana" che ponesse la Germania sul trono di un'Europa a sua immagine e somiglianza per sfidare la supremazia mondiale della potenza anglofona di turno (...ricorda niente?).
E fa sorridere che gli USA, i quali oggi hanno nomea di guerrafondai e imperialisti, 100 anni fa mantenessero una politica prettamente isolazionistica e neutrale per quanto riguardava il Vecchio Mondo.

Ma davvero gli italiani possono ritenersi gli unici "giusti" combattenti per una causa nobile come la riunificazione nazionale?
Un indizio che fa pensare l'opposto è il comportamento tenuto dal governo italiano nella declinazione di fine '800 dell'imperialismo, ossia il colonialismo. Infatti gli italiani hanno partecipato, seppur in misura minoritaria, alla "Spartizione dell'Africa" in ricerca del prestigio e delle materie prime garantite dal proprio "posto al sole" nel continente nero.
Tenuto conto di ciò, è evidente come la questione dell'unificazione nazionale abbia coperto i reali interessi della classe dirigente italiana a entrare nel primo conflitto mondiale. Le ragioni degli alti papaveri erano molto più egoistiche e prosaiche: i vertici militari, e Cadorna in particolare, erano attratti dalla gloria e dagli onori ottenibili dal comando del gran numero di truppe che faceva parte dell’allora Regio Esercito [2]; i grandi gruppi industriali del nord avevano l’acquolina in bocca per gli esagerati guadagni garantiti dalle commesse militari; la corte sabauda era impaziente di accrescere il proprio prestigio completando il sogno del loro antenato Vittorio Amedeo di riunire i territori italiani sotto lo stemma Savoia.
Ben diverso il sentimento in seno al popolo e al Parlamento. Prudenza e pacifismo erano maggioritari allo scoppio del conflitto e venivano accresciuti dalle cronache dal fronte occidentale: nessuno dei due contendenti aveva ancora assestato il colpo decisivo all’avversario nonostante mesi di massacri che provocarono innumerevoli vittime.
Solo una piccola ma rumorosa parte del ceto borghese, interpretata dal pensiero futurista e da analoghe correnti culturali tipiche di tutte le borghesie nazionali, suonava i tamburi di guerra e supplicava il governo di prender parte alla contesa. La convinzione era quella che l’entrata in guerra dell’Italia avrebbe spezzato l’equilibrio del conflitto ottenendo il massimo risultato con il minimo sforzo bellico.

Certo, anche se la motivazione per imbracciare le armi dei vertici della società fosse stata quella nobile del mero completamento del Risorgimento, la conduzione della guerra fu affrontata con il più totale disprezzo della vita delle truppe al fronte e degli operai in fabbrica. È tristemente noto infatti che l’esercito italiano sia quello che abbia fatto più uso delle fucilazioni [3], nonché l’unico ad aver adottato la disgustosa pratica della decimazione dei reparti, in cui comprovati innocenti venivano puniti per crimini commessi da loro commilitoni ignoti in barba ad ogni principio della responsabilità personale. Inoltre il Comando italiano, almeno fino alla deposizione del Gen. Cadorna (al quale la città di Milano ha dedicato e continua imperterrita a dedicare una piazza), non si esimeva dalla pratica di ordinare sanguinosissimi e ripetuti attacchi frontali contro nemici ben trincerati, tutto per minimi spostamenti della linea del fronte [4].
Se nelle trincee la situazione era disperata, meglio non se la passavano gli operai nelle fabbriche. Questi erano costretti a turni massacranti dovuti alla carenza di manodopera con paghe mantenute basse che non stavano al passo con l’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità [5]. A qualsiasi accenno di sciopero, il governo rispondeva con l’invio di truppe nelle fabbriche e, come se non bastasse, i giornali li additavano come traditori che insultavano il sacrificio dei loro connazionali in trincea con futili richieste da nababbi viziati.

E quindi che dire a cent'anni da questa guerra? La storiografia non ha mancato di biasimare i peggiori comportamenti e gli errori della classe dirigente italiana, anche se spesso in maniera non proprio organica. C’è però un aspetto che fino ad ora non ho considerato e che in fin dei conti accende pure nel sottoscritto un’opinione positiva della partecipazione italiana alla Grande Guerra: il modo in cui il popolo l’ha combattuta e vinta. La prima guerra mondiale non ha solo compiuto l’unità geografica dell’Italia, ha soprattutto unito il suo popolo: è tra i reticolati e le trincee che la naturale solidarietà tra i soldati di tutta la penisola ha generato quel collante che continua a durare ai giorni nostri e che raggiunse il suo picco negli anni successivi alla fine della guerra [6]A noi italiani di oggi non rimane che ricordare il sacrificio di milioni di nostri concittadini agli ordini di aristocratici megalomani, rievocando quella grande forza solidale che permise ai nostri bisnonni di vincere la guerra per i propri compagni e i futuri nipoti. Sarebbe anche giunta l'ora che l’Italia riabiliti ufficialmente le centinaia di uomini giustiziati arbitrariamente, magari seguendo l'esempio inglese dello “Shot at dawn memorial”.

VIVA IL POPOLO ITALIANO

ONORE AI CADUTI.

ANCHE QUELLI PER MANO NOSTRA.

 

Note

[1] Celebrazioni a Parigi.

[2] Dalla formazione del Regno d’Italia allo scoppio della Prima guerra mondiale il Regio esercito era passato dalle 300 mila a quasi un milione di unità.

[3] Il totale delle fucilazioni nell’esercito italiano è di circa 1000. Per fare un confronto l’esercito francese ne ebbe 600 nonostante avesse un numero di effettivi doppio a quello italiano. L’esercito britannico, di dimensioni comparabili a quello italiano, inflisse 350 pene capitali nei propri ranghi.

[4] Ricordiamo al lettore che dal 24 Maggio 1915 al 7 Novembre 1917 furono combattute DODICI Battaglie dell’Isonzo. Siamo sicuri che se non fosse stato per la 12ª, nota ai più come Battaglia di Caporetto, il comando italiano sarebbe andato ben oltre la 20ª.

[5] Una delle cause scatenanti dei moti di Torino del 1917 fu la penuria di pane. Il Partito Socialista ,che fino a quel momento era stato colpevolmente passivo nei confronti della guerra “per amor di patria”, guidò la prima grande manifestazione antimilitarista dall’entrata nel conflitto dell’Italia.

[6] Purtroppo il generale sentimento di unione rimase un fenomeno intra-classe: la paura per la rivoluzione bolscevica causata dalle richieste di riforma agraria e dalle occupazioni delle fabbriche creò quella divisione tra proletariato e borghesia che portò poi al trionfo del fascismo.

 

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