
A partire dal 2011, anno dell’improvida campagna militare che portò alla caduta di Gheddafi, la Libia è diventata uno degli scacchieri geopolitici più complessi al mondo. Per dirla in altri termini, si è trasformata in un teatro di guerra come pochi altri con una miriade di fazioni e milizie che nel corso degli ultimi sette anni si sono scontrate dando luogo a qualche decina di migliaia di morti.
Ahimé, ricostruire tutta la storia politica e militare della Libia dalla morte del Ra’is a oggi è un progetto troppo ambizioso per questo articolo. Proviamo quindi a descrivere i principali protagonisti della situazione attuale per poi capirne gli ultimissimi sviluppi:
- Fayez al-Sarraj, al momento è il primo ministro del Governo di Accordo Nazionale della Libia. Sebbene i parlamenti di Tripoli e Tobruk nel 2015 avessero approvato formalmente il Libyan Political Agreement che portava al superamento delle due assemblee e alla formazione di questo governo, la nomina a premier non è stata ratificata dai voti di nessuna delle due aule libiche. Nel 2016 il parlamento di Tripoli, allora a maggioranza islamista guidata da al-Ghwell, si è sciolto cedendo il passo ad al-Sarraj e al suo governo di unità nazionale appoggiato dall’ONU. A seguito del comunicato con cui al-Ghwell si impegnava a rinunciare alle proprie funzioni politiche in nome della fine della sanguinosa divisione del paese, molte delle milizie della Tripolitania sono passate dalla parte di al-Sarraj e vi sono rimaste fino ad oggi.
- Khalifa Belqasim Haftar, è il generale che ha il controllo effettivo dell’Esercito Nazionale Libico facente riferimento al parlamento di Tobruk. Dopo esser stato uomo chiave di Gheddafi per vari decenni, nel 1987 dopo la disfatta nella guerra contro il Ciad ebbe la bella idea di provare a scalzare il Ra’is formando un esercito e facendolo armare dagli USA. Il fallimento nell’impresa lo costrinse a un esilio volontario negli Stati Uniti di circa vent’anni, fino a quel 2011 in cui i tempi per ritentare la spallata al dittatore erano diventati maturi. Attualmente il generale tiene sotto controllo la maggior parte del territorio libico, dalla Cirenaica al Fezzan, e ha legami con diverse formazioni militari di etnia Tebu che operano in Tripolitania. Sul piano internazionale è appoggiato pubblicamente da Egitto, Emirati Arabi, Russia e Francia, anche se occorre sottolineare che solamente quest’ultima si è prodigata a inviare truppe sul campo in aperta violazione della sovranità libica.
- Abdel Rahim al-Kani, è il capo della Settima Brigata e protagonista degli scontri di questi giorni nella capitale. La Settima Brigata è una formazione militare che fino a un paio di anni fa è stato un corpo agli ordini del Ministero della Difesa di Tripoli. Quando al-Sarraj ha deciso di dismetterla, si è trasformata in un cane sciolto che da pochi mesi ha trovato un nuovo padrone nel generale Haftar.
- Abdul Qader al-Najdi, è il leader dello Stato Islamico in Libia. Dopo aver subito gravi perdite sia in Tripolitania che in Cirenaica, l’ISIS continua a mantenere molte cellule attive in tutto il paese, specialmente nel nord-ovest.
Sostanzialmente in queste ore quello a cui stiamo assistendo è un’avanzata da sud della Settima Brigata all’interno della città di Tripoli, sede del Governo di Accordo Nazionale riconosciuto dall’ONU. Stando a quanto comunicato da al-Kani, lo scopo di questi scontri (che hanno fatto nell’ultima settimana una cinquantina di vittime al giorno) è quello di combattere la corruzione delle milizie locali alleate di al-Sarraj. Per uno spettatore imparziale però non è difficile fare due più due e capire che il vero obiettivo del comandante al-Kani sono gli stabilimenti petroliferi sulla costa: una mossa questa che segnerebbe un grosso scacco di Haftar nei confronti di al-Sarraj. Con le mani libere dopo la cacciata delle truppe islamiste di al-Najdi dalle città di Bengasi e Derna, l’uomo forte della Cirenaica sarebbe a un passo dall’imporsi anche sulla capitale se questa manovra dovesse andare a segno.
Ora, lungi da me scomodare concetti aulici quali l’autodeterminazione dei popoli: in Africa dovremmo aver ben capito che vale quanto il due di coppe con briscola a bastoni. Però qui siamo davanti a una situazione clamorosa proprio a livello di alleanze internazionali: la Francia, che è stata la principale promotrice dell’intervento delle Nazioni Unite in Libia del 2011, sta continuando a perseguire i propri interessi nazionali con una propria campagna africana. Appoggiando apertamente, piccolissimo dettaglio, un golpista sanguinario del calibro di Haftar. Poco male per Macron che il generale miri a soppiantare proprio quel governo di unità nazionale formato grazie all’intervento dell’ONU, l’unica cosa che conta è riuscire a estendere l’influenza francese in nord Africa. E va da sé che se qualcuno ci guadagna qualcun altro ci rimette: provate un po’ a indovinare quale paese europeo è riuscito in questi anni a formulare accordi economici con il governo di Tripoli ripristinando la partnership commerciale bombardata con Gheddafi nel 2011.
Se avete risposto Italia, avete dato la risposta esatta. La Libia infatti è il più fecondo esportatore di petrolio e gas naturale del Maghreb e contribuisce da sola a soddisfare circa il 10% del fabbisogno italiano: l’Eni non per nulla è presente sul suolo libico dal 1959 e ha concessioni fino al 2047 per il gas e fino al 2042 per il greggio. Non serve troppo sforzo per capire chi sarebbero le prime vittime di un passaggio del potere nelle mani di Haftar, che da tempo si è profusamente espresso contro le "odiose" ingerenze italiane in Libia e in favore di quelle di Total, assolutamente amabili e squisite.
Verrebbe poi un altro problema per lo Stivale qualora al-Serraj dovesse esser destituito: gli accordi con la Libia che regolano i flussi migratori andrebbero seduta stante a farsi benedire. E non mi è parso proprio che i cugini transalpini si siano prodigati troppo sul tema della condivisione dell’accoglienza tra paesi dell’UE. Anzi nel 2017, sotto l’egida del neoeletto Président, la Gendarmerie ha toccato il record di 45 mila respingimenti al confine di Ventimiglia.
Dà da pensare, insomma, che gli stessi artefici di queste manovre temerarie, che se ne fregano bellamente di alleanze e diritto internazionale, facciano paternali sulla valenza umanitaria dell’accoglienza o contro la barbarie medievale di chiudere i porti alle ONG. Ma loro in effetti sono proprio di un’altra era. Quella coloniale.