
L’ultima escalation delle ormai storiche tensioni tra Mosca e Kiev si è consumata a fine novembre con una schermaglia vera e propria nello stretto di Kerč': tre navi della Marina ucraina dirette a nord verso il porto di Mariupol sono state intercettate e bloccate con la forza dalla guardia costiera russa. In particolare, dopo l’altolà diffuso dagli altoparlanti di una delle navi di pattuglia, il rimorchiatore “Yany Kapu” è stato speronato e, nel giro di pochi istanti concitati, sono stati esplosi diversi colpi d’arma da fuoco che hanno provocato tre feriti fra gli uomini dell’equipaggio ucraino. Al momento le tre imbarcazioni in questione sono ancora requisite dal comando di Mosca e ben dodici soldati sono trattenuti in arresto a Sinferopoli in attesa del processo per violazione delle acque territoriali russe.
Il caso rappresenta la più grave crisi nel Mar Nero dal 2014, dai tempi, insomma, dell’annessione della Crimea. Naturalmente i due governi coinvolti forniscono resoconti dell’accaduto completamente discordanti: le autorità ucraine sostengono di aver fornito alla Marina russa un preavviso del transito delle navi e che quindi tutta la vicenda sarebbe da inquadrare come un atto ostile bello e buono del Cremlino volto a serrare la stretta sul Mar d’Azov; il ministro degli esteri moscovita Lavrov invece riporta la versione della propria guardia costiera, ossia che non ci sarebbe stata alcuna richiesta di passaggio da parte delle imbarcazioni militari ucraine e che, di conseguenza, ci sarebbe stato uno sconfinamento nelle acque territoriali russe con il preciso scopo di provocare una situazione ad alta tensione.
Come spesso accade in queste circostanze, è molto difficile se non impossibile determinare con assoluta certezza come si siano svolti i fatti. Quel che è certo però è che la Russia dal 2015 in poi stia violando sistematicamente il diritto marittimo internazionale [1], ostacolando il libero accesso a un mare che non può esser in alcun modo considerato “interno”. A seguito dell’annessione della Crimea, infatti, Mosca è entrata in possesso di entrambe le sponde dello stretto di Kerč' e ha dato il via alla realizzazione di un’opera faraonica, un ponte stradale e ferroviario a cavallo fra le due penisole che delimitano a sud il Mar d’Azov. Vari esponenti del governo di Porošenko in passato hanno denunciato che questo enorme cantiere sarebbe stato messo a punto con il solo scopo di indebolire pesantemente il commercio marittimo ucraino, costringendo i cargo di passaggio sotto le campate in costruzione a estenuanti ritardi per sottoporsi a controlli serrati. È vero in effetti che quello in esame non è un tratto di mare qualsiasi, bensì un varco imprescindibile per l’economia di Kiev: tanto per capirci, è proprio da lì che passano i milioni di tonnellate di grano che l’Ucraina esporta in Turchia e in buona parte del Vecchio Continente. Allo stesso tempo però è innegabile che quello di costruire un ponte che colleghi due lembi del proprio territorio sia un diritto inalienabile della Federazione Russa e, alla luce del fatto che il viadotto è stato inaugurato da Putin nel maggio scorso, l’ipotesi che l'infrastruttura costituisse solo un espediente per inibire il trasporto marino ucraino perde un po’ di credibilità. L’opera è di dimensioni mastodontiche ed è stata realizzata in meno di tre anni con costi piuttosto esosi, si parla dell’equivalente di tre miliardi di dollari: se i russi avessero voluto prolungare la durata del cantiere per proseguire le ispezioni a tappeto alle navi portacontainer e danneggiare per altri dieci anni l’export ucraino, avrebbero avuto gioco facile.
Un altro elemento che si deve assolutamente annoverare fra i moventi di questo scontro marittimo sono le riaccese ambizioni delle Repubbliche di Donetsk e Luhansk sull’importante porto di Mariupol. I separatisti filorussi di queste zone, che nel 2014 coordinarono le proteste armate contro l’esercito regolare ucraino fino a una dichiarazione unilaterale di indipendenza da Kiev, sono tornati nei mesi scorsi a farsi sentire e il presidente Porošenko è alla disperata ricerca di un appoggio militare della NATO. Con il Paese così spaccato fra un occidente filoeuropeo e un’oriente economicamente e storicamente proiettato verso la Russia, non pare così assurdo pensare che la manovra delle tre navi ucraine possa esser stata studiata a tavolino per dar luogo a un incidente che riportasse le attenzioni dell’Alleanza Atlantica sul Mar Nero. Non per nulla è proprio di ieri la notizia dell’invio di un’unità da guerra navale americana nel Bosforo, che secondo le indiscrezioni di alcune fonti turche verrà raggiunta a breve da un’intera flotta.
Per chi si interessa alle vicende di Vicino e Medio Oriente, non sarà certo una novità quella di un possibile intervento NATO in aperta ostilità con il Cremlino. Certo, per il momento i due schieramenti si sono sempre limitati a scontri “indiretti”, ma un exploit militare non va più considerato del tutto impossibile. Non è peregrina infatti la decisione di Porošenko di imporre la legge marziale in tutte le regioni lungo il confine orientale. Anche se l’avvento di Trump ha segnato un vistoso calo dell’aggressività degli Stati Uniti a livello geopolitico, è difficile dimenticarsi gli anni recenti di febbrile attività militare a stelle e strisce, durante la presidenza del Premio Nobel per la pace più guerrafondaio di sempre.
A volerla dire tutta senza troppi peli sulla lingua, la stessa annessione della Crimea (criticatissima e sanzionatissima, tanto che ancora oggi non viene riconosciuta dalla comunità internazionale e costa a Mosca pesanti sanzioni commerciali) appare un atto molto più legittimo di tutti i reiterati interventi occidentali nelle vicine faccende mediorientali. Attenzione, non stiamo facendo paragoni con questioni di un altro pianeta: le zone calde del Mediterraneo orientale si trovano a sì e no cinquecento chilometri di distanza dal Mar Nero. Senza neanche stare a considerare l'esito del referendum tenutosi in Crimea nel marzo del 2014, resta il fatto che nel primo caso abbiamo assistito all’aggregazione alla Federazione Russa di un territorio che per motivi identitari ed economici è sempre stato estremamente legato al tessuto sociale degli Oblast’ di Krasnodar e di Rostov. Non dimentichiamo, del resto, che la penisola fu ceduta alla RSS Ucraina da Chruščëv nel 1954 per motivi prettamente diplomatici. Nel secondo caso invece non abbiamo visto e non continuiamo a vedere altro che pelose ingerenze in conflitti locali da parte di nazioni che non hanno mai avuto alcun contatto con le popolazioni coinvolte e che si muovono spinte solo e soltanto dai più biechi interessi strategici. Per quanto io mi senta tendenzialmente contrario a tutte le occupazioni militari in quanto violazioni del sacro principio dell’autodeterminazione dei popoli, non faccio troppa fatica a scegliere quale delle due operazioni abbia dato esiti più umani e sostenibili a livello sociale.
Da ultimo, una provocazione: la lodata (e imbrodata) Ucraina occidentale è spinta sempre più potentemente verso posizioni filoeuropee da diversi movimenti di estrazione popolare. Peccato che questi movimenti siano di fattura squisitamente nazionalista, e i più si dichiarino apertamente fascisti [2]. Sembra quasi che a Bruxelles i nazionalismi facciano paura solo quando non sono ben allineati.
Fonti
[1] Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare
[2] Articolo su Forbes di Vladimir Golstein, professore di studi slavi alla Brown University. Vi si spiega in maniera molto esaustiva la genesi dell'attuale spaccatura politica ed economica fra Ucraina dell'est e dell'ovest. Molto interessante la digressione storica che spiega come i movimenti nazionalisti raccolgano l'eredità antisovietica fortemente radicata nelle regioni occidentali e la traducano in un'istanza anti-russa e filoeuropea.