
Il mapensa del mese di novembre è arrivato da Taranto: con grande sorpresa dei più, ArcelorMittal ha definitivamente annunciato il proprio ritiro dal contratto di acquisizione degli stabilimenti siderurgici dell’Ilva. La notizia è calata come una scure sulla precaria compagine giallo-rosa, innescando un farsesco battibecco fra gli alleati di governo sull’opportunità dello scudo penale. E mentre la stragrande maggioranza degli spazi del dibattito mediatico è stata occupata da questo scontro, di cui più avanti proveremo a chiarire meglio la caratura folclorica, in Puglia si sta consumando un dramma di portata nazionale. È bene infatti ricordare che Ilva è un asset strategico per il nostro Paese da cui dipende più di un punto e mezzo percentuale del PIL, nonché il sostentamento di diecimila lavoratori dell’azienda e di altri cinquantamila impiegati nell’indotto. La prospettiva di chiuder bottega e mandare tutti a casa è uno scenario socialmente catastrofico che nessuno Stato degno di questo nome potrebbe mai permettere.
Per inquadrare meglio la nostra questione, è opportuno dare come al solito un minimo di background storico alle vicende di questi giorni. Il polo siderurgico tarantino è stato per più di quarant’anni il fiore all’occhiello del gruppo statale Italsider, il cui processo di smembramento e privatizzazione è iniziato a fine anni ’80. In particolare, la (s)vendita dell’Ilva è stata ultimata solo tra il ’95 e il ‘96 con l’acquisto dell’azienda da parte dei Riva, durante quella meravigliosa stagione di privatizzazioni che ha caratterizzato i rampanti anni ’90 del bel paese – a proposito, grazie ancora, Mortadella.
Nel 2012 emergono i primi guai giudiziari per i vertici aziendali: una serie d’inchieste sulle gravissime violazioni ambientali e fiscali messe in atto porta al sequestro dell’acciaieria e a un inevitabile commissariamento per evitare lo spegnimento degli altiforni. A questo proposito, è di pochi mesi fa la notizia dell’assoluzione dell’ex vice-presidente Fabio Riva nel processo per bancarotta fraudolenta di Ilva Spa. In compenso, il processo per associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale è ancora in corso e, sebbene sia ancora lontano dalla sentenza, sembra avviarsi a un esito piuttosto diverso. Non per nulla l’astuto rampollo, che aveva fiutato la mala parata con un certo preavviso, dopo l’emissione del mandato d’arresto del 2012 decise di fuggire dall’Italia dandosi alla latitanza per ben due anni [1].
La gestione commissariale traghetta quindi l’azienda, non senza difficoltà, fino alla conclusione della gara internazionale che avrebbe permesso di trovare l’agognato investitore. E alla fine, come nella miglior fiaba liberista, free market provides: il principe azzurro è il gruppo franco-indiano ArcelorMittal che, dopo una trattativa giudicata “piena di criticità” persino dall’ANAC, avvia la procedura d’acquisizione e a fine 2018 entra effettivamente in possesso degli stabilimenti di Taranto.
Il resto è storia recente e ne avete sentito parlare parecchio in questi giorni: ArcelorMittal ha annunciato ai primi di novembre il proprio ritiro dalla partita e ha così aperto una nuova fase di trattativa con l’esecutivo.
Il motivo dietro alla smaliziata mossa dell’azienda, stando alla vulgata portata avanti da giornali e telegiornali, sarebbe il decadimento dello scudo penale per i vertici aziendali votato dalla nuova maggioranza. Secondo Morselli, amministratore delegato di ArcelorMittal Italia, questa nuova configurazione legale sommata alle condizioni tecniche in cui versano gli impianti renderebbe impossibile perseguire il piano industriale stabilito con il MiSE senza incorrere in sanzioni penali per reati ambientali.
C’è però un piccolo dettaglio che forse a molti, ma non certo agli avvocati della multinazionale, sembra esser sfuggito: in Italia la responsabilità penale è personale. Non c’è modo che i quadri aziendali vengano condannati per scempi commessi da chi li ha preceduti. E soprattutto, per fugare ogni dubbio, val la pena ricordare che il piano ambientale concordato fra azienda e Governo è stato adottato con un DPCM le cui prescrizioni sono di carattere normativo. Ora, visto che l’articolo 51 del codice penale prevede che “l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità esclude la punibilità”, non serve un fine giurista per capire che l’adempimento degli impegni presi dalla multinazionale non possa generare responsabilità penali.
Dunque questa foglia di fico dello scudo penale, a una lettura un tantino più attenta di quella proposta dai media mainstream, si rivela per quello che è: un mero espediente dietro a cui celare le vere motivazioni, o forse sarebbe meglio dire le vere intenzioni, del colosso dell'acciaio.
È opportuno infatti sottolineare come il mercato dell’acciaio in Europa stia andando da diversi semestri incontro a una fortissima contrazione, causata in primis dalla crisi del settore manifatturiero tedesco e ulteriormente aggravata dalla guerra commerciale fra Donald Trump e Xi Jinping. I dazi americani infatti non hanno soltanto colpito direttamente l’export tedesco, andando a intaccare per lo più l’industria automobilistica, ma hanno soprattutto provocato il redirezionamento di milioni di tonnellate d’acciaio cinese dal mercato americano a quello europeo. È questo quindi il complesso scenario in cui devono muoversi i grandi operatori come Mittal che, per tutelare la propria posizione, fanno di tutto per aumentare la propria quota di mercato. Il modus operandi è quello di acquisire quanti più concorrenti possibili per poi scegliere di mantenere attive le realtà a più alta redditività, chiudendo – va da sé – quelle meno remunerative. Un piano semplice ma terribilmente efficace.
È sotto questa luce che va letta la vicenda Ilva, altro che scudo penale. È sempre più evidente infatti che lo scopo di ArcelorMittal è stato fin da principio quello di liberarsi di un competitor. Se è vero che il piano di sviluppo industriale sottoscritto al MiSE un anno fa, che in teoria puntava a fare di Taranto il principale stabilimento della multinazionale in territorio europeo, prevedeva che l’area ionica sarebbe stata in perdita nel corso dell'anno corrente, bisogna anche considerare che le perdite effettive sono risultate più del doppio di quelle stimate. Ora, è sicuramente un fatto che lo stato del mercato siderurgico sia peggiorato anche più di quanto non fosse lecito aspettarsi, ma con il senno di poi riesce veramente difficile credere alla bontà degli intenti originari del gruppo franco-indiano. Due settimane fa non a caso è assurta all'onore delle cronache un'interessante indagine delle procure di Taranto e Milano: scopo dell'inchiesta è quello di far luce su un potenziale disegno da parte dei vertici aziendali volto a far lievitare le perdite dello stabilimento pugliese attraverso la svendita ad altre società del gruppo di materie prime e semilavorati [2].
Ma senza stare a scomodare la giustizia, per capire la portata del repentino cambio di rotta basta leggere la revisione del piano industriale proposta in settimana dai vertici aziendali al Governo come pacchetto di condizioni per restare in gioco. Si parla di 4700 licenziamenti (più di 6600 se si considerano i lavoratori già in cassa integrazione) oltre a una significativa contrazione degli oneri di risanamento [3]. E se non bastassero i mostruosi costi sociali e ambientali di tutto questo, bisogna considerare anche l’abbattimento del 40% e passa della capacità produttiva di uno dei nostri asset nazionali più importanti.
Sfortunatamente, nel braccio di ferro in corso fra Governo e ArcelorMittal, la posizione di forza è occupata dalla multinazionale. La spregiudicata scommessa dei vertici aziendali punta tutto sul fatto che la crisi del settore tenga ben lontano qualsiasi altro investitore privato, costringendo così lo Stato italiano a venir a più miti consigli e ad accettare queste proposte, normalmente irricevibili, nel tentativo di scongiurare uno scenario socialmente ancor più catastrofico. Ed è chiaro a tutti che questa scommessa verrà vinta fintanto che il nostro Paese continuerà a sottostare alle regole europee sulla concorrenza, che impediscono de facto un intervento attivo dello Stato nel porre rimedio alle ferite aperte dal libero mercato.
Mentre in tutto il resto del mondo infatti emergono con sempre maggior forza le economie caratterizzate da un’impostazione marcatamente dirigista, Cina in primis, qui in Europa continuiamo ad avvitarci nella drammatica spirale provocata dall’approccio ordoliberista ai periodi di crisi. Un approccio questo che storicamente non ci appartiene ma che negli ultimi tre decenni abbiamo abbracciato più intimamente di quanto non abbiano fatto gli stessi padrini tedeschi [4].
A chi conserva una certa memoria storica in effetti mette una certa tristezza pensare che il Paese che diede i natali a Enrico Mattei sia oggi così impotente di fronte al ricatto di una multinazionale. Quello stesso Paese che negli anni ’60 mostrò al mondo le potenzialità di un’economia mista adesso è condannato a rinunciare a qualsiasi ambizione di politica industriale, rimanendo inerte persino quando in ballo c’è una partita come quella dell’Ilva. C’è poco da dire: sono questi gli effetti devastanti delle reiterate cessioni di sovranità che abbiamo tributato sull’altare del progetto europeo, tutto il resto è noia. O, se preferite, chiacchiere buone per le sardine.
E di fronte a tutto questo, nel desolante panorama politico italiano, solo qualche grillino che ha mantenuto la schiena dritta ha avuto il coraggio di pronunciare l’unica parola che avrebbe senso proferire su questa vicenda: nazionalizzazione. È chiaro come il sole che, per conciliare questione sociale e questione ambientale, il polo tarantino necessita di investimenti ingentissimi che non possono soddisfare la logica del profitto immediato. Soltanto lo Stato può adempire a quel ruolo di investitore paziente necessario per rilanciare l’Ilva e, con l’Ilva, tutta la città di Taranto piagata da oltre vent’anni di polvere rossa.
Purtroppo a questo sparuto coro di voci ragionevoli, si oppone un controcanto formidabile guidato dall’ahimè Ministro dell’Economia Gualtieri. Per i gatekeeper del modello neoliberale infatti il verbo “nazionalizzare” suona come una bestemmia in chiesa e così si inizia già a parlare di società mista che affianchi ad ArcelorMittal la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti per tamponare le eccessive perdite dello stabilimento. Insomma, seppur lentamente, si va configurando per l’ennesima volta quel canonico scenario di privatizzazione degli utili e socializzazione delle perdite a cui ormai ci siamo tristemente abituati. Irrimediabilmente abituati. Mortalmente abituati.
Fonti
[1] Articolo del Sole 24 Ore dedicato ai processi relativi alla gestione Riva.
[2] Articolo del Fatto Quotidiano sull'inchiesta congiunta delle procure di Taranto e Milano.
[3] Articolo del Fatto Quotidiano sulla recente revisione del piano industriale proposta da ArcelorMittal.
[4] Quando in ballo ci sono le proprie banche, come nel recente caso di NordLB, la governance tedesca si riscopre improvvisamente sovranista e predilige agli aiuti pubblici anche in presenza di compratori esteri. Curiosamente in questi casi la Commissione Europea non ha nulla da dire. Per un approfondimento sul tema, con tanto di confronto con il caso nostrano di Tercas, si rimanda a questo articolo di Giuseppe Liturri per la Verità.