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“Non certo io amo mia moglie e mio figlio più che non mio padre e la Chiosa Pubblica."

Germanico

Giù le mani dal Medioevo

Dipinto che rappresenta un divertente rito medioevale.

A meno che non abbiate trascorso l’ultimo fine settimana sotto un sasso, lontani da tutti e disconnessi da tutto, vi sarà giunta voce che a Verona si è tenuto un summit piuttosto controverso. Alludiamo naturalmente al Tredicesimo Congresso Mondiale delle Famiglie: l’evento ha riacceso nell’opinione pubblica una diatriba sui cosiddetti “temi etici” che effettivamente era rimasta per un bel po’ lontana dal guazzabuglio del dibattito politico.
Per provare ad analizzare in maniera organica il marasma di opinioni che si è sollevato, ci pare opportuno distinguere almeno tre filoni tematici: divorzio e legislazione sulla famiglia; aborto e autodeterminazione della donna; ideologia gender e questione delle identità fluide. Da notare che i congressisti di Verona hanno astutamente scelto di mescolare questi tre dibattiti, mettendo tutto in un unico calderone per alimentare le reazioni indignate dei progressisti e ottenere così la massima risonanza mediatica. Una trappola che effettivamente ha funzionato alla grande e nella quale, almeno noi, cercheremo di non cascare.

Partiamo dunque dal tema del divorzio: ovviamente si tratta di un acquis sociale che nessuno sano di mente si sognerebbe mai di contestare. Neppure la retorica spicciola dei "bei tempi che furono" fornisce un appiglio per metterlo in discussione, giacché, com’è noto, esisteva persino nelle società precristiane (una su tutte, la Roma di duemila anni fa). Allo stesso tempo però non ha senso negare che una società sana abbia bisogno di nuclei familiari relativamente stabili, che abbiano la possibilità di durare a lungo e che siano in grado di costituire un punto di riferimento sia affettivo che economico.
Stesso dicasi per l’aborto, pensare di metterlo fuori legge è semplicemente assurdo, se non altro perché è sempre esistito e tornare alle mammane non è esattamente una prospettiva allettante. Tuttavia l’interruzione di gravidanza resta un atto intrinsecamente problematico, in primo luogo per la donna che ne vive sulla pelle tutte le conseguenze. Dunque pensare a dei provvedimenti per minimizzare il numero dei casi è tutt’altro che anacronistico: parlare di “cultura della vita” può suonare un po’ fuori luogo, ma promuovere una “cultura della responsabilità” è doveroso, accompagnando a una sempre più necessaria educazione alla sessualità un welfare familiare che sia degno di questo nome.

Tali questioni, che a Verona sono state indegnamente utilizzate per alimentare una caciara senza senso, sono in realtà ben lontane dal potersi considerare risolte e archiviate. Per farvi fronte c’è bisogno di trovare una laicità positiva che consenta innanzitutto allo Stato di riappropriarsi pienamente dell'istituzione del matrimonio. Nell’Italia degli ultimi decenni ci si è occupati ben poco di questa faccenda nel timore di pestare i piedi alla Chiesa: il risultato è una legislazione scritta quasi come se il divorzio non esistesse, solo che invece esiste e da questa discrasia derivano processi estenuanti e interminabili che rischiano di far piombare nella precarietà assoluta sia mogli che mariti [1]. C’è la necessità di una riformulazione più asciutta e coerente del diritto familiare, che permetta uno scioglimento quanto più sereno possibile del legame matrimoniale e che al contempo metta lo Stato nella condizione di poter esercitare una difesa costituzionale della famiglia. Non c’è nulla di paradossale: solo una volta poste le condizioni normative più adeguate, lo Stato può dedicarsi alla diffusione di un’educazione civica alla famiglia, un’educazione ossia al ruolo pubblico della famiglia che, ricordiamolo, non è soltanto una realtà privata ma un elemento cardine di tutta la nostra società. Non ci si può più permettere di delegare a una confessione religiosa un aspetto fondamentale come questo, sia per la crisi di una Chiesa che non rappresenta più da tempo interi settori della società, sia perché un’educazione civica alla famiglia dovrebbe includere anche un’educazione all’eventualità del divorzio, cosa che la Chiesa per ovvi motivi non potrebbe mai suffragare.

L'ultimo nonché il più spinoso fra i tre punti considerati è il dibattito sulla teoria gender, un universo sterminato che racchiude sia studi scientificamente e socialmente rilevanti che ideologie al servizio di un’agenda destrutturante. Se da un lato infatti è una grande conquista la consapevolezza che la sessualità si snodi lungo uno spettro e non attraverso una mera dicotomia maschio-femmina, dall’altro non si può ignorare la deriva atomizzante delle declinazioni più estreme di questo principio. Un individuo completamente ripiegato sui propri desideri estemporanei e concentrato unicamente a soddisfare le proprie pulsioni contingenti è inevitabilmente spinto a rifuggire quella stabilità richiesta dalla società, o meglio dalla sua cellula fondamentale. Questo homo novus, privato di legami duraturi, è costretto a cercare la propria realizzazione nell’espletazione di bisogni il più delle volte eterodiretti: è il sogno proibito del mercato che arriva a lambire persino i sentimenti e, allo stesso tempo, l’epilogo dell’elemento umano nella società, ultimo freno alla totalizzante logica del profitto.
Proviamo a spiegarci concretamente e prendiamo in considerazione la parabola del movimento nel quale l’ideologia gender trova storicamente i natali: il femminismo.

Il movimento femminista radicale, che comunemente si definisce così per distinguerlo da quello delle suffragette di primo Novecento, dal ’68 fino alla fine degli anni ‘70 è stato protagonista in Italia e nel mondo di una sacrosanta battaglia per l’affermazione sociale della donna e la sua autodeterminazione. Sono meriti da ascriversi a questa seconda ondata femminista leggi necessarie come quelle sull’aborto e sul divorzio, e pure il riconoscimento del ruolo delle donne lavoratrici da parte della società tutta. E fin qui tutto bene, anzi benissimo. Nei decenni successivi però la carica rivoluzionaria di quelle campagne è stata gradualmente imbrigliata nei meccanismi del modello capitalista: la giusta equiparazione salariale tra lavoratrici e lavoratori è divenuta un livellamento al ribasso. Quella conquista si è lentamente tramutata in una disfatta. Tanto per capirci, nei primi anni ’80 in molte famiglie entrava un solo stipendio, e in media quel solo stipendio bastava a mantenere dignitosamente una moglie senza reddito e un paio di pargoletti. Oggi due giovani sotto i trent’anni con due lavori mediamente retribuiti fanno fatica a pagare affitto e bollette, figuriamoci a sostenere i costi di un figlio. Insomma, in pochi lustri il capitalismo è riuscito in un vero e proprio miracolo: raddoppiare i dipendenti dimezzando le paghe.
In questo scenario, la legittima e sincera lotta per l’emancipazione femminile è divenuta l’ennesimo escamotage per sviare l’attenzione dagli effetti nefasti della deregulation del mercato del lavoro. In maniera del tutto analoga, erano più che condivisibili le rivendicazioni civili a sfondo LGBT propugnate quando ancora non c’era contezza dall’erosione in corso dei diritti sociali. Ma oggi le frange radicalizzate dell’ideologia gender sono palesemente divenute armi di distrazione di massa o peggio, come si spiegava prima, delle dottrine destrutturanti funzionali a questo modello di sviluppo, che in nome di un liberalismo assoluto minano la stabilità dell’ultimo nucleo rimasto dichiaratamente solidale nella società moderna: la famiglia.

Nelle civiltà premoderne in effetti il principio di solidarietà sociale era estremamente più esteso di quanto non lo sia oggi. Il motivo è facilmente comprensibile: c’era bisogno di far fronte comune di fronte alle asperità dei tempi che correvano e a tutti era ben chiaro il patrimonio rappresentato dalla mera presenza di un altro essere umano nel proprio gruppo. Le società, specialmente quelle del tanto bistrattato Medioevo, non erano divise orizzontalmente in classi fra loro antagoniste come avrebbe poi imposto la rivoluzione industriale, ma verticalmente in nuclei isolati internamente coesi. Il Signore teneva un contatto forte con i contadini e tributava rispetto a chi lavorava la terra, come del resto avveniva in tutte le civiltà precedenti. Vigeva un’assoluta consapevolezza dell’importanza di chi, con il proprio operato, sosteneva tutti gli altri. Allo stesso tempo, l’assenza di un’economia di mercato sviluppata non spingeva i nobili a spremere fino al limite gli abitanti del contado, giacché decime e corvée (che paragonate al regime fiscale odierno fanno ridere) erano più che sufficienti a riempire i magazzini della corte [2]. Con buona pace della vulgata liceale che erige a norma i rari casi di nobili aguzzini che vessavano i propri sudditi, quella medievale era una società compatta e solidale, ancora non intaccata dall’ossessiva corsa al profitto che è poi il vero marchio di fabbrica della modernità.

In un Occidente in cui più di trent’anni di politiche neoliberali hanno provocato le sempre più intollerabili disuguaglianze sotto gli occhi di tutti, è perfettamente normale che la società torni a esprimere delle istanze di solidarietà e coesione sociale. Dopo aver assistito all’assoggettamento e alla crisi dei corpi intermedi (partiti, sindacati e associazionismo in generale), è fisiologico che fra la gente serpeggi un sentimento di difesa a spada tratta nei confronti dell’ultimo contesto in cui certi valori vengono ancora più o meno mantenuti.
È per questo che i vari Gandolfini risultano ancora più odiosi e insopportabili: perché raccolgono un bisogno sacrosanto e lo strumentalizzano per portare avanti un’agenda retrograda, che non restituisce nulla a nessuno dal momento che non pone minimamente in discussione i canoni dell’attuale modello di sviluppo. Anzi, ci sguazza. Del resto i teocon nostrani, seppur in chiave cattolica, si rifanno chiaramente al fortunato modello dei movimenti evangelici americani: delle agenzie di marketing belle e buone, il cui messaggio promozionale è un moralismo bigotto da quattro soldi, capace di condannare persino il diritto a maturare una propria sessualità.

A coloro che in questi giorni hanno tacciato i congressisti di Verona di voler riportare l’Italia indietro di un millennio, noi intimiamo quindi di smetterla con le calunnie. I Brian Brown [3] di turno teorizzano di fatto un mondo dove l'alienazione odierna continua a farla da padrone, ma ci si sfoga stigmatizzando la diversità di chi non si allinea alle tradizioni. Paragonare questa roba al Medioevo significa solo gettare altro fango su un periodo che la Storia ci ha già costretto a rivalutare. D’accordo, non è che la società di allora fosse tutta rose e fiori, lo sappiamo. Non siamo dei passatisti che coltivano il mito di un Medioevo arcadico e idealizzato: la vita era dura, le libertà personali poche e le possibilità di farsi da sé praticamente nulle. Ai diritti civili non pensiamoci nemmeno, ai tempi non si andava troppo per il sottile e non saper tener a freno la lingua, dichiararsi omosessuale o persino ostentare dei bei capelli rossi poteva costar caro [4]. Ma per lo meno poi, quando il rogo si spegneva, si tornava a casa tutti insieme.

 

Note

[1] In Italia divorziare è ancora un processo lungo, costoso e spesso doloroso. Decisioni fondamentali come quelle sull’affidamento dei figli e sul mantenimento del coniuge sono prese al momento della rottura, in cui tipicamente nessuna delle parti in causa è abbastanza lucida da poter prendere delle scelte razionali, invece di essere anticipate al momento della contrazione del legame. La giurisprudenza recente ha parzialmente risolto il problema, per esempio stabilendo che l’assegno di mantenimento non deve necessariamente garantire a uno dei due coniugi lo stile di vita goduto durante il matrimonio (Corte di Cassazione, prima sezione civile, sentenza n. 11504 depositata il 10 maggio 2017), facendo valere dunque il concetto che il matrimonio non è un legame “eterno” ma una scelta che può essere fatta e disfatta in coscienza. Tuttavia, la strada da fare è ancora lunga, specialmente per l’affidamento dei figli (anche il cosiddetto “divorzio breve” recentemente approvato non copre il caso in cui sono presenti figli minorenni).

[2] Il tema dell'economia medievale è affrontato da una vasta letteratura, qui sono state chiamate in causa le tesi esposte da Marc Bloch nel saggio “La società feudale”.

[3] Articolo del Corriere della Sera sul personaggio di Brian Brown.

[4] Il riferimento è alla caccia alle streghe, che a onor del vero si colloca temporalmente dopo la fine del Medioevo, per lo più tra '500 e '600. C'è poi da ricordare che nella nostra penisola si trattò di un fenomeno assai limitato rispetto alle proporzioni che assunse nell'Europa Centrale o negli Stati Uniti.  

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