
«La mia Europa è morta» sentenziava Romano Prodi a gennaio del 2017. È proprio vero, sono già due anni che persino il più convinto promotore nostrano dell’europeismo a tutti costi ha dovuto ricalibrare il tiro sullo stato dell’Unione. Quella dichiarazione è stata un vero e proprio libera-tutti che ha dato il via a un’entusiasmante gara al riallineamento. Tutti quei soloni, che per quasi vent’anni avevano incensato le meraviglie del progetto europeo, da un giorno all’altro hanno iniziato a spiegarci le criticità di un’UE sempre più matrigna e le patologie di certe istituzioni lasciate in mano a grigi burocrati. Pure il tabù dei tabù, la critica alla moneta unica, ha iniziato seppur timidamente a far capolino nella bagarre dei talk show. Cottarelli, non un omonimo ma proprio quel Mr Spending Review che per anni ha rappresentato nel bel paese l’artiglio gelido dell’austerity, pochi mesi fa ha dichiarato che l’euro è stato un gabbia e che senza «l’Italia sarebbe cresciuta di più».
Insomma, non c’è proprio niente da fare: quest’Europa non funziona. Lo hanno capito (quasi) tutti e oggi si può persino dire, non è più uno psicoreato. Tuttavia se mettere in discussione le fattezze attuali dell’UE è pratica ormai sdoganata, questionare la necessità e la bontà del progetto vale ancora la scomunica dai salotti buoni. Non so se succede anche a voi ma, quando mi assalgono pruriti tremendamente euroscettici, inizio a sentire i moniti lapidari di Cacciari. Nella testa risuona spettrale la voce del professore che, con erre moscia ma ferma, mi ricorda che fuori dall’Europa non c’è speranza per nessuno [1]. In effetti la povera italietta non ha alcuna chance di barcamenarsi in un mondo sempre più conteso fra il colosso americano e quello cinese. Finiremmo gambe all’aria in men che non si dica e a quel punto tanti saluti alla tanto invocata sovranità. L’Europa, con tutti i suoi difetti, quanto meno ci mette al riparo da queste egemonie a livello economico e, perché no, anche geopolitico.
Ma siamo sicuri che sia davvero così?
Almeno sul piano finanziario, è pacifico rispondere no. Non è questa la sede in cui approfondiremo l’assurdità del pareggio di bilancio strutturale e la malizia dietro ai modelli econometrici con cui la Commissione stima il famigerato output gap [2]. Però si può affermare con certezza che vi siano precise scelte politiche dietro alla linea di una BCE che si è preoccupata di combattere l’inflazione in un periodo di demarcata deflazione. Chi ha sentito parlare della curva di Phillips e del NAIRU (Non-Accelerating Inflation Rate of Unemployment, ossia il tasso di disoccupazione funzionale a non far alzare l’inflazione) avrà già capito dove voglio andare a parare: fare di tutto per evitare l’inflazione nell’eurozona ha significato scegliere attivamente di mantenere alti i livelli di disoccupazione. Semplice, lineare e, aggiungo io, mostruoso.
Del resto non è neppure così difficile immaginare come sia stato possibile che la cosiddetta eurocrazia abbia potuto per decenni muoversi nella tutela degli interessi di pochi a discapito di quasi tutti. In buona parte, è vero, ha contribuito il vento del laissez-faire che dalla fine del secolo scorso ha spirato da oltreoceano su tutte le cancellerie europee, ma per il resto la responsabilità è da attribuirsi al clamoroso deficit democratico di cui soffrono le istituzioni europee. Sembra assurdo, ma il Parlamento per cui si vota domenica conta drammaticamente poco. Meno della Commissione, meno del Consiglio europeo, meno della BCE, meno persino dell’Eurogruppo, che è una riunione informale (badate bene, informale) che tengono periodicamente i Ministri delle Finanze dei paesi dell’eurozona. E sebbene in alcuni degli organi di questa gargantuesca struttura siedano personalità che bene o male un confronto con le urne l’hanno vissuto in prima persona, la grande maggioranza delle poltrone di rilievo sono occupate da gente che non è soggetta ad alcun tipo di controllo democratico. Stiamo parlando di burocrati il cui nome è oscuro alla quasi totalità della popolazione sebbene il loro operato abbia un impatto enorme sulle vite dei cittadini.
A pensarci bene, viene il sospetto che non sia un caso che l’impalcatura istituzionale europea sia divenuta così gigantesca e inintelligibile.
Tutte queste anomalie, secondo i più accorti fra coloro che tuttora ripongono fiducia nel progetto europeo, non sarebbero altro che inevitabili conseguenze di un’Unione economica che non ha mai saputo diventare politica. E in effetti è indubbio che legare così intimamente prima con il mercato e poi con la moneta Stati che avevano interessi così discordanti sia stata una mossa quanto meno azzardata. Il dubbio che sorge spontaneo è capire se dal secondo dopo guerra le volontà conflittuali delle singole Nazioni siano state smussate o se, come temo, il sogno di un’unione politica vera e propria fra i Paesi del Vecchio Continente non sia in grado di reggere la prova della realtà. Guardiamo qualche fatto spicciolo, che non fa mai male.
La Francia in Libia, dopo esser stata tra i principali promotori dell’intervento militare che ha completamente destabilizzato la regione, finanzia serenamente Haftar, che da qualche settimana di fatto cinge d’assedio Tripoli. Per chi non lo sapesse, il generale della Cirenaica ha apertamento dichiarato in più occasioni di essere ostile alle partnership strette dal governo di al-Sarraj con ENI e non ha neanche lontanamente celato l’intento di cedere quelle concessioni petrolifere alla francese Total in caso di presa della capitale.
La Germania, che militarmente parlando ha qualche inibizione per evidenti ragioni storiche, da ormai più di vent’anni pratica una politica mercantilista che ha saturato di prodotti tedeschi i mercati europei. La famosa regola sulle partite correnti che fissa (generosamente) il surplus commerciale di ogni Stato dell’eurozona a un massimo del 6% del PIL viene regolarmente violata dai tedeschi, eppure in Commissione nessuno ha mai pensato di stilare una bella letterina per minacciare procedure d’infrazione contro Berlino [3].
Belgio, Irlanda, Olanda, Lussemburgo e chi più ne ha più ne metta sgomitano per accaparrarsi le residenze fiscali delle multinazionali offrendo tassazioni che uno Stato normale non può lontanamente permettersi. Negli ultimi anni si è sentito qualche commissario europeo accennare sommessamente al problema del dumping fiscale, ma anche in quel caso siamo ben lontani da qualsiasi provvedimento concreto.
L’Ungheria, insieme ad altri Stati dell’Europa centro-orientale, costituisce la meta perfetta per le delocalizzazioni della grande industria italiana, tedesca e francese. Il premier Orban, che si definisce a capo di una “democrazia illiberale”, nel suo decennio alla guida del Paese ha smontato pezzo dopo pezzo i diritti sociali dei lavoratori ungheresi e ha così offerto la stampella perfetta a quella deriva neoliberista che stava inghiottendo l’Occidente [4]. Illiberale? Sì, ma solo per i cazzi suoi. Quando si parla di economia l’astuto Orban è più liberista di Friedman, altroché.
Potremmo andare avanti con questo bel quadretto, ma anche limitandoci a un semplice schizzo l’immagine che vien fuori è quella di un serraglio in cui ogni belva è pronta ad azzannare la sua vicina.
Sul piano internazionale lo scenario risulta anche più sconfortante. Quell’UE che dovrebbe garantirci dalle superpotenze mondiali si mostra supina agli interessi di Washington ogni volta che c’è l’occasione. Penso alle polemiche insorte a seguito della firma del memorandum tra Roma e Pechino sulla via della Seta oppure al silenzio colpevole dei vertici europei di fronte alle sanzioni americane contro il petrolio iraniano. Ancora più imbarazzante rischiava di essere l'atteggiamento dell’UE sul Venezuela, lambito dall’ennesimo golpe a stelle e strisce. Fortunatamente la posizione italiana per una volta è stata ferma e con un veto ha impedito all’Unione di compiere l’ennesimo vile atto di asservimento agli yankee. Unico voto contrario su ventotto Ministri degli Esteri: anche se quella volta è andata bene, non mi pare che ci sia troppo da rallegrarsi.
Insomma, a poche ore dal voto europeo mi assale il tarlo che di quest’Unione forse non abbiamo così bisogno. No, non dico che noi italiani dovremmo uscirne, sia chiaro. Dico solo che le costruzioni realizzate a Bruxelles, Strasburgo e Francoforte negli ultimi trent’anni sarebbero da smantellare senza troppi riguardi. Ecco, una bella Europa pre-Maastricht sarebbe proprio quel che ci vuole, con Schengen sì, ma con i cambio valute nelle aree di sosta ai confini. L’italietta del secondo novecento se l’era cavata egregiamente a volteggiare sulla cortina di ferro senza il peso del giogo europeo, non vedo perché non possa riprovarci ora. Un’illusione dal sapore un po’ passatista? Può darsi. Ma sempre più concreta di quella che osanna un’Europa dei Popoli che non è mai nata. Con buona pace di Cacciari.
Fonti
[1] In proposito si veda l’articolo di Cacciari “Europa: la coscienza e il destino” apparso su l’Espresso il 24 febbraio 2019.
[2] L’output gap, la differenza tra PIL potenziale e PIL effettivo, è un parametro che in teoria avrebbe dovuto mitigare l’approccio ottocentesco alla finanza pubblica abbracciato dagli euro-burocrati, adeguando i vincoli di bilancio ai cicli economici. Peccato che per come viene calcolato questo risulti l’ennesimo strumento volto a esasperare, anziché ripianare, gli squilibri tra Paesi UE. In questo articolo il professor Tooze della Columbia University snocciola puntualmente questa ennesima (appartente) contraddizione.
[3] A onor del vero Juncker ha recentemente rilasciato un'intervista al giornale tedesco Handelsblatt in cui denuncia questa anomalia. Peccato che si sia guardato bene di passare dalle parole ai fatti.
[4] Questa è soltanto una delle ultime leggi varate da Orban che, andando a minare per l’ennesima volta i diritti dei lavoratori, porge alle imprese straniere una golosa offerta di manodopera a basso costo. La quintessenza del dumping salariale.