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"Non con l'oro, ma col ferro va riscattata la Chiosa Pubblica!"

Marco Furio Camillo

Meid in Itali: il problema si chiama Starbucks?

Domino’s Pizza

È successo. I barbari, che Milano del resto l’hanno fondata e abitata, sono tornati nella città della Madonnina. E fin qui, poco male: le invasioni sono un fenomeno ricorrente nella storia del nostro Paese. Lo scandalo è un altro: i barbari vogliono insegnarci a bere il caffè! E questa volta non si tratta nemmeno di quella brodaglia piena di zucchero e cannella che esce dai loro robot azionati da impiegati-schiavi pomposamente chiamati “barista”. No. Stavolta il caffè, di qualità, è tostato sul posto, fatto cristianamente, a mano, come (o meglio che?) nei bar italiani.

Apriti cielo. I social esplodono. Il Sole24Ore grida allo scandalo. Il Codacons annuncia un esposto all’Antitrust [1] per il prezzo troppo elevato (un euro e ottanta) del caffè. Ma lorsignori sono mai entrati in un caffè storico di un centro città italiano, magari a Venezia, per controllare se un espresso al tavolo costa davvero un euro? Leggere le reazioni scompostamente “sovraniste” di gruppi d’interesse che solitamente tessono lodi sperticate alla globalizzazione è sempre divertente, certo. Ma la cronaca spicciola a proposito dell’apertura di un caffè americano (a cui auguriamo buona fortuna: noi, articolo 41 alla mano, crediamo nella libera iniziativa sempre, e non a giorni alterni) nasconde problemi più seri.

Per capire quali questioni dobbiamo affrontare, poniamoci alcune domande. Cos’è il “Made in Italy”? Qual è il valore che il nostro Paese aggiunge al prodotto, nell’epoca in cui il prosciutto di Parma parla fluentemente romeno e la pasta è fatta con grano… saraceno? A cosa ci serve questo “meta-marchio” un po’ provinciale, un po’ globalizzato, spesso figurante in un improbabile font tricolore accanto a sigle esoteriche come i codici di autorizzazione dei consorzi locali? La risposta a queste domande, e ad altre ancora più generali che riguardano il nostro modo di essere presenti nello scacchiere globale, determineranno il risultato di diverse sfide fondamentali per l’Italia.

Partiamo dal commercio estero (il campo d'azione del "Made in Italy", appunto), citando un dato che alcuni potrebbero trovare sorprendente: l’export italiano non si basa prevalentemente sull’alimentazione, come l’esposizione mediatica suggerirebbe. Se diamo una rapida occhiata al rapporto del MISE sul commercio internazionale [2], ci rendiamo conto che i principali prodotti di esportazione sono macchine, autoveicoli, medicinali, articoli di abbigliamento, prodotti chimici. Se questo da un lato ridimensiona il problema del cosiddetto “italian sounding” in campo alimentare (alcuni esempi: l’americana Domino’s in mezzo mondo, la francesissima catena di ristoranti Del Arte), dall’altro ci fa capire che i margini di profitto delle esportazioni alimentari sono enormi, a patto di capire come riuscire a vendere prodotti realmente italiani nel resto del mondo.

Per capire meglio dobbiamo però allargare la questione, ponendoci domande ancora più generali. Come ci presentiamo al mondo come Paese? Qual è la nostra immagine (che è poi ciò che vorremmo veicolare nel famoso marchio "Made in Italy")? Come interveniamo per adeguarla a ciò che vogliamo comunicare? Altri Paesi sono riusciti a creare una sorta di circolo virtuoso. Le sedi diplomatiche e consolari coordinano aziende esportatrici e importatrici, agenzie del turismo e istituti di lingua e cultura presenti in maniera capillare (è vero per Francia, Germania, Spagna, da qualche anno ovviamente la Cina, per non parlare del Regno Unito). Intelligence economica, politica e culturale convivono per assicurare che tutti gli attori, sia pure in maniera autonoma, recitino la loro parte per realizzare la strategia del Paese di appartenenza e rafforzarne il posizionamento nello scacchiere globale.

La situazione italiana, perlomeno a confronto delle altre potenze europee, è imbarazzante. Le politiche del turismo sono delegate alle regioni. A Tokyo o a New York è più probabile leggere un cartellone “Visita la Puglia” che “Visita l’Italia”. Le sedi diplomatiche si occupano più della promozione dei pomodori nostrani (le “settimane della cucina italiana” all’estero non si contano più) che di export vero e proprio. Gli enti linguistico-culturali sono semplicemente inesistenti: Accademia della Crusca non pervenuta, forse troppo affaccendata a discettare di petalosità in patria, mentre gli Istituti Italiani di Cultura sono pochi, burocratizzati e senza spirito d’iniziativa.

Serve agire, e in fretta. In ogni grande città europea e capitale extra-europea serve una scuola di italiano gestita da un ente culturale governativo ma dotato di ampie autonomie. Le ambasciate devono dedicarsi a iniziative commerciali che portano davvero del valore aggiunto, con buona pace di zio Tonio che ha preparato la burrata a Francoforte. I consolati devono federare i tanti emigrati nel mondo dell’impresa, dell’industria, della ricerca affinché abbiano più opportunità e partecipino alla strategia globale del loro Paese d’origine invece di muoversi in ordine sparso.

Per farla breve, l’Italia, le sue istituzioni, le sue imprese, i suoi cittadini devono agire come Paese nello scenario mondiale. E il caffè americano sarà l’ultimo dei nostri problemi.

 

Fonti

[1] Starbucks: apre a Milano, ma Codacons lo denuncia ad Antitrust (Comunicato stampa, 6 settembre 2018) 

[2] Principali prodotti esportati dall'Italia (elaborazioni Osservatorio Economico MISE su dati Istat)

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