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"La Chiosa Pubblica, per me, è l'esplicazione storica e necessaria e l'assettamento morale della democrazia ne' suoi termini razionali: la Chiosa Pubblica, per me, è il portato logico dell'umanesimo che pervade ormai tutte le istituzioni sociali."

Giosuè Carducci

La Brexit e il gioco delle tre carte

La brexit è l'ambientazione di questo capolavoro del "tea western": la scema, l'antisemita e il memelord.


Premessa dettata dall'onestà intellettuale: nel mio precedente articolo sulla Brexit [1], pronosticavo la possibilità di raggiungere un accordo soddisfacente per entrambe le parti coinvolte, falsificando le nefaste previsioni dei media sugli effetti dell'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea. Alla prova dei fatti, le incombenti piaghe bibliche promesse risultano disperse alla Godot, come avevo facilmente profetizzato. Anzi l'andamento dell'economia in UK ha felicemente registrato una crescita di occupazione e salari, fino al nuovo record di bassa disoccupazione. E questo nonostante il disastro politico riconosciuto da tutti al governo del paese. Dal punto di vista dell'accordo invece ho toppato. Ho ingenuamente sottostimato la complessità dei nodi politici riguardanti l'Irlanda del Nord, ma soprattutto non ho creduto possibile una tale idiozia da parte dei vertici del governo britannico. Questa governance si è condannata all'imperitura ignominia, dimostrando un'irresolutezza nel condurre le trattative paragonabile solo a quella del governo Chamberlain durante la conferenza di Monaco del '38.
Quell'articolo quindi è stato completamente superato dagli eventi, nonostante le premesse che lo avevano partorito rimangano tutto sommato valide. Questo pezzo ne è il conseguente aggiornamento, frutto soprattutto di una conoscenza più approfondita delle dinamiche politiche della perfida Albione.

Sono passati quasi tre anni dalla fatidica votazione del 24 giugno 2016. Nel solco della grande tradizione democratica inglese, la domanda posta agli elettori era stata semplice e chiara "Should the United Kingdom remain a member of the European Union or leave the European Union?" [2]. A dispetto della novella della bassa partecipazione al voto raccontata dai media, l'affluenza fu massiccia: 72,2%. Un valore molto significativo in un paese dove per le elezioni europee l'affluenza si è sempre tenuta sotto il 40% e che supera addirittura il tipico livello di affluenza delle elezioni generali degli ultimi decenni, attestato attorno al 65%. Inoltre la vittoria del Leave è stata incontestabile, con più di un milione di voti di scarto, anche se percentualmente risicata, 52% contro 48%.
La semplicità del quesito e la chiarezza del risultato, però, hanno portato dopo tre anni a un nulla di fatto. Per riuscire ad arrivare a un accordo di divorzio condiviso, prima carta sul tavolo e opzione preferita sia dal governo UK che dalla controparte UE, sono stati necessari negoziati estenuanti che hanno messo in luce le contraddizioni politiche ed economiche di quella parte di classe politica britannica che ha portato avanti le trattative, i Tories di Theresa May. Ricordiamoci che tra questi "moderati", durante la campagna referendaria, era stata proprio la ormai dimissionaria Premier una dei principali testimonial del Remain. E questo è sicuramente il primo clamoroso errore del partito conservatore: aver posto al vertice di un negoziato per uscire dall'UE una personalità che si era schierata apertamente per evitarlo. [3]


Ma le contraddizioni non finiscono qui. A livello economico, i Tories sono ispirati da dottrine liberiste e a favore dello smembramento dello stato sociale. La salvaguardia della partecipazione al mercato unico a garanzia degli interessi dei grandi gruppi finanziari e commerciali, che finanziano lautamente le campagne elettorali del partito, è rimasta una priorità per tutta la durata dei negoziati, esponendo i delegati britannici ai diktat della controparte. Va detto inoltre che il mantra politico principale che ha portato alla vittoria del Leave è stata la richiesta di una totale libertà di Londra in termini di politica doganale e migratoria rispetto alle decisioni di Bruxelles. Per molti parlamentari brexiter, le proposte riguardanti il mercato unico presenti nell'accordo stipulato dalla May confermavano questa subordinazione alla legislazione dell'Unione con il caveat che da lì in avanti i sudditi di Sua Maestà non avrebbero nemmeno più avuto voce in capitolo per discuterle o approvarle. Questo è stato abbastanza per bocciare l'accordo per tutte e tre le volte che è stato portato di fronte ai Comuni. 

Non dimentichiamo poi che la parte più critica dell'accordo a detta di tutti i commentatori è quella riguardante il futuro della porzione di Regno Unito sull'isola d'Irlanda. Si noti infatti che questo aspetto non riguarda le mere questioni economiche ma ha a che vedere con la tradizionale gamma di questioni politico/culturali che occupano ancora un posto di riguardo nelle menti dei cittadini. Alla faccia di quegli intellettuali che predicano il mescolamento globalista negando l'importanza delle identità nazionali, religiose e culturali.
In questo caso a far sentire il peso della questione identitaria, è stato l'alleato di governo di Theresa May, il Democratic UNIONIST Party. Non dovrebbe sorprendere che la delegazione parlamentare del partito protestante nord irlandese si sia opposta all'accordo. La frontiera doganale proposta nel mare che separa le due isole principali dell'arcipelago britannico, avrebbe di fatto separato l'Irlanda del Nord dal resto del Regno. Questa soluzione è stata giudicata come la migliore da tutti, ad eccezione proprio del DUP e delle frange più marcatamente unioniste dei Tories, poichè nessuna delle parti in causa vuole rompere il fragile equilibrio trovato poco più di venti anni fa imponendo un nuovo hard border. [4]

La tripla bocciatura parlamentare dell'accordo e le prossime dimissioni di chi lo ha architettato segnano il definitivo tramonto per la possibilità di una Brexit concordata. Anche perché sembra poco probabile che l'eventuale prossimo Primo Ministro possa trovare un accordo entro ottobre, soprattutto data l'intransigenza della controparte nel non voler ridiscutere alcunché dell'accordo così faticosamente raggiunto. Intransigenza che tiene fede ai promessi veti del governo spagnolo e di quello irlandese a eventuali modifiche dell'intesa in essere. Senza contare che dietro le quinte altri paesi, chi per un motivo chi per un altro, sono propensi a spingere il Regno Unito ad un No Deal, per spartirsi il peso geopolitico lasciato vacante.

Ma se la May piange, Corbyn non ride. La posizione del segretario del Labour Party rimane molto delicata. Il suo partito ha supportato il Remain dicendo addio agli ultimi voti delle roccaforti operaie disilluse dalla svolta blairista degli anni '90. D'altro canto il supporto post voto alla Brexit ha invece alienato le masse cosmopolite cittadine, nuova base del partito da cui proviene in buona parte l'attuale classe dirigente. Questo riposizionamento non è campato per aria però, ma è giustificato dall'apprezzamento di Corbyn per un'uscita in grado di facilitare il programma di protezionismo e rinazionalizzazioni in settori chiave dell'industria siderurgica ed energetica con il quale ha vinto le primarie laburiste. Tale programma risulterebbe pressoché impossibile all'interno dell'Unione Europea. Peccato che attualmente la strategia Labour di chiedere insistentemente nuove elezioni generali non risolverebbe in alcun modo lo stallo in essere, data l'assoluta mancanza dei numeri dei partiti tradizionali per formare un governo che possa portare a termine un'idea condivisa di accordo di uscita.

Preso atto dell'impossibilità di far passare qualsiasi accordo, rimangono solo due carte in tavola: uno gnorri Remain e un piratesco No Deal.
Il desiderio di circa un terzo degli elettori, rappresentati dalla totalità dei Lib-Dem, dei Green, degli indipendenti scozzesi e dei centristi all'interno di Labour e Tory, rimane quello di cancellare completamente gli ultimi 3 anni di politica british e ripartire ignorando il risultato del referendum, come fosse stato un brutto sogno dal quale risvegliarsi al più presto. Per aggiungere al danno la beffa, costoro vorrebbero proporre un nuovo referendum sull'uscita. Questo comportamento non sarebbe affatto nuovo per quanto riguarda esiti referendari relativi all'UE, non sono poche le consultazioni che sono state ripetute fino all'esito gradito ai desiderata dell'elitè europeiste oppure direttamente aggirate. [5]
La dura realtà è che il referendum era troppo semplice nella sua genuinità e non aveva tenuto conto di un aspetto fondamentale, che ha anche contribuito al successo del Leave: se Brexit, quale Brexit e a che costo. La speranza era che la politica avrebbe saputo sciogliere questo dilemma ma non si è rivelata assolutamente all'altezza.

Questo stallo, unito al terrorismo mediatico e le inchieste giudiziarie recenti [6], non ha però scalfito in alcun modo i brexiter duri e puri che continuano ad essere la componente di maggioranza relativa nel triello hard brexit-soft brexit-remain, superando di poco il terzo dell'elettorato. Anzi il vento del No Deal soffia sempre più forte, a tutto vantaggio del protagonista reso famoso da questa battaglia: Nigel Farage.
Il precedente partito guidato dall'ex broker, l'UKIP, sfavorito dal sistema elettorale che premia il radicamento territoriale nelle circoscrizioni, non ha mai ottenuto successo nelle elezioni nazionali. Ma tutto questo potrebbe cambiare dal prossimo parlamento visto che il Brexit party è in testa ai sondaggi come primo partito nazionale, avendo assorbito la stragrande maggioranza degli elettori favorevoli al no deal, ormai disillusi che Tory e Labour possano portare a casa la loro richiesta d'indipendenza da Bruxelles. Il partito di Farage è uscito da vincitore assoluto delle scorse elezioni europee oltremanica, e anche se la prudenza è d'obbligo data la bassa affluenza a questa tornata elettorale, un rinvio oltre l'attuale scadenza di ottobre della Brexit aprirebbe scenari inediti, soprattutto se andasse a coincidere con una nuova elezione nazionale. Non è fantapolitica pensare che, data la frammentazione nel campo del remain e la legge elettorale first past the post, un consistente ingresso di brexiter intransigenti nei Comuni possa finalmente spostare l'ago della bilancia fino a ottenere una maggioranza di favorevoli al no deal con l'Unione.
A questo punto non rimane altro che aspettare la prossima elezione. E forse un nuovo wakey wakey.

 

Fonti

[1] Articolo della Chiosa Pubblica del 10 settembre 2018.

[2] "Il Regno Unito dovrebbe rimanere un membro dell'Unione Europea o dovrebbe lasciare l'Unione Europea?"

[3] Qui un video di 4 minuti dove Theresa May spiega perché il Regno Unito non dovrebbe uscire dall'Unione Europea e qui una foto dell'ex premier in azione durante la campagna per il Remain.

[4] Il Good Friday agreement del 10 Aprile 1998 ha posto fine al periodo dei Troubles, in cui per buona parte del secolo scorso le frange estreme di repubblicani cattolici e unionisti protestanti si sono scontrate per il destino dell'Irlanda del Nord causando migliaia di morti anche tra i civili (complice la brutalità delle forze armate britanniche). Le criticità dell'accordo su questi delicati argomenti ha dimostrato come ci voglia molto poco per riaccendere i Troubles.

[5] Sono stati ripetuti i referendum a distanza di un anno per l'approvazione del trattato di Maastricht in Danimarca e per l'approvazione dei trattati di Nizza e di Lisbona in Irlanda. I risultati referendari negativi sulla costituzione sono stati aggirati in Francia e nei Paesi Bassi, in questo paese per ben due volte il referendum sulla costituzione ha dato esiti negativi. La costituzione europea è stata accantonata e sostituita da un equivalente sistema circolare degli stessi trattati. Le consultazioni referendarie in Polonia, Portogallo, Danimarca, Irlanda e lo stesso Regno Unito sono state sospese a seguito di questa decisione.

[6] Articolo del Corriere della Sera su una querela accolta contro Boris Johnson.

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