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"Quel che fonda la Chiosa Pubblica è la totale distruzione di tutto quel che ad essa si oppose."

Louis Antoine de Saint-Just

Lo Stato contro LoStato

Palazzo Koch in Via Nazionale a Roma

Dopo diversi dritti e rovesci tenuti fin dall’inizio della legislatura, è arrivata la resa dei conti finale tra Governo e Bankitalia. La partita è molto più importante di quello che sembrerebbe a una prima occhiata. Palazzo Chigi si è reso conto in quest'anno e mezzo che senza l’appoggio, o per lo meno la non ostilità, dei principali organi statali (INPS, Bankitalia, Corte dei Conti, organi di vigilanza etc.) l'azione governativa risulta fortemente limitata, vittima di sabotaggi e costretta a compromessi difficilmente spiegabili agli elettori alla luce del grande appoggio parlamentare. Quindi va da sé che ad ogni occasione che si presenta di rinnovare delle cariche istituzionali, la più importante delle quali sarà il Capo dello Stato nel 2021, ministri e parlamentari della maggioranza intervengano abbastanza decisamente per fare in modo che l’incarico sia affidato a persone d’accordo con gli obiettivi del Governo del Cambiamento. 
Per capire concretamente di cosa stiamo parlando, basta pensare a Tito Boeri e alle sue invettive in qualità di mandarino capo dell’Inps. Questi, nel corso del 2018, ha rilasciato numerosissime interviste in cui si scagliava contro al blocco sull’immigrazione, al decreto dignità e soprattutto alla temutissima quota 100. Certo, queste dichiarazioni si addicono più a un capo dell’opposizione che al presidente dell’ente previdenziale, che in quanto tale dovrebbe attuare le decisioni del governo più che contestarle pubblicamente. Ma evidentemente la potestà su una fettina di Stato legittima a sentenziare come padreterni fregandosene delle istanze popolari, alla faccia degli ingenui che credono sia necessario esser votati per poter decidere le linee politiche della Nazione.

Fatta questa premessa veniamo al caso specifico della nostra banca centrale. Il nome caldo in queste ore è quello del vicedirettore Signorini, il cui mandato è scaduto l’11 febbraio. I dirigenti della banca lo hanno già riconfermato e sono decisi a non voler cambiare decisione in virtù del principio d’indipendenza della banca centrale dal Governo. Questo principio fu sancito nel 1979 dal divorzio tra banca e Tesoro ed è stato poi ribadito come cardine del trattato di Maastricht. La maggioranza, dal canto suo, risponde che indipendenza non vuol dire insindacabilità e che non si possono ignorare le responsabilità dei vertici dell’organo di vigilanza del sistema bancario di fronte alle tante vicende di sofferenze, fallimenti e crolli azionari che hanno colpito gli istituti nostrani negli ultimi anni.

Legalmente la situazione non è facilmente districabile. Come accade in molti altri ambiti delle istituzioni democratiche, anche qua un sistema di pesi, contrappesi, approvazioni incrociate e controllo circolare regola i rapporti tra i due contendenti. Infatti se andiamo a leggere lo statuto della banca, la riconferma e la nomina di un sostituto spettano al Consiglio Superiore su proposta del Governatore, che attualmente è Ignazio Visco (già sopravvissuto al tentativo renziano di rimpiazzarlo). L'esecutivo interviene solo al momento dell’approvazione, visto che sono il Presidente del Consiglio e il Ministro delle Finanze che presentano il decreto da far firmare al Presidente della Repubblica. Insomma Palazzo Chigi non ha proprio i mezzi per imporre nomi nel CdA. D’altronde, in una recente intervista [1], il Presidente della commissione Bilancio della Camera Borghi ha fatto notare che, se il Governo vuole intervenire nel processo, il parere non può essere completamente ignorato: da qui il braccio di ferro e lo stallo [2]. Si noti che questa presa di posizione dura viene in realtà mitigata dal fatto che il Governo ha dichiarato di poter accettare alla guida dell'ente anche un membro che sia già al suo interno, rispettando così il perimetro d’indipendenza invocato dall'attuale dirigenza. È proprio alla luce di questa mano tesa che la posizione del Consiglio Superiore dell’istituto sembra alquanto talebana, mal celando il nervosismo in seno a parecchi personaggi di spicco dell’apparato statale. 

Dietro all'esigenza giallo-verde di una radicale sterzata alla guida di Palazzo Koch vi sono quindi diverse ragioni, per lo più di natura prettamente politica. In passato si sono verificate molte situazioni in cui gli alti papaveri non hanno contrastato ma anzi abbracciato come un toccasana diverse novità normative di matrice europea per il sistema creditizio del bel paese. Poi, quando ormai la frittata era fatta, si facevano aspri critici di quelle stesse norme. Nella vicenda del bail in, ad esempio, il governatore Visco disse nel 2015 in conferenza stampa: “Le banche devono informare la clientela del fatto che potrebbero dover contribuire al risanamento di una banca”, dimostrando così la volontà di Bankitalia di non intervenire nelle prossime crisi bancarie. Poi nel 2017 si ricordò che uno dei suoi compiti in qualità di governatore era proprio evitare che il sistema saltasse per aria e chiese un ripensamento delle regole del bail in, anche alla luce dell’evidente asimmetria di aiuti statali ricevuti dal sistema italiano rispetto a quello tedesco o francese [3]. Il meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie si inserisce nel più ampio discorso dell’unione bancaria europea, fortemente caldeggiata dai vertici di Palazzo Koch e fondata sui tre pilastri della vigilanza unica, della risoluzione interna e della tutela europea dei depositi. Com’era prevedibile, la condivisione dei rischi è rimasta a lungo solo su carta, permettendo per anni a vari Paesi dell’eurozona di salvare le proprie banche con il classico metodo dell’iniezione di liquidità statale, mentre la vigilanza unica e il bail in sono stati applicati con particolare zelo nei confronti dell’Italia. Risultano tardive le parole del direttore generale di Bankitalia, Salvatore Rossi, che solo nel 2018 si è accorto di come sia stato “accantonato lo scopo originario” dell’Unione bancaria visto che della condivisione dei rischi non se ne parla nemmeno più. Messa da parte la “carota”, rimangono solo i “bastoni” dell’Unione, pronti a maramaldeggiare con il morente di turno in pieno stile lanzichenecco.

Altra vicenda in cui Bankitalia viene accusata di assoluta negligenza riguarda le relazioni con la Popolare di Vicenza. L’istituto veneto, dopo anni di sofferenze e mala gestione, è attualmente in liquidazione coatta. Il punto di svolta per la banca fu l’inchiesta giudiziaria del 2015 a seguito del passaggio di vigilanza dalla Banca d'Italia alla BCE, che ordinò una drastica pulizia dei conti causa di rivalutazioni e perdite per miliardi di euro. L’assenza di un intervento da parte del nostro istituto nazionale risulta alquanto sospetta se si considera l’assunzione all'epoca di ben tre ispettori di Bankitalia presso l'istituto vicentino. Dalla banca centrale hanno fatto semplicemente sapere che i tre ispettori non erano mai stati coinvolti direttamente nella vigilanza dell’istituto veneto e che la loro assunzione non aveva violato alcuna legge. Risulta difficile però alla luce dei fatti credere che queste assunzioni non abbiano aiutato a nascondere il dissesto dei conti della banca agli altri ispettori o addirittura ad ammorbidire il giudizio degli ex colleghi in sede di vigilanza. Come disse Papa Pio XI: “A pensar male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina” [4].

Come conseguenza di questi fallimenti sembra ancor più necessario un allontanamento di certi individui, sia nel caso in cui la mancanza di giudizio sia stata frutto di incompetenza sia nel caso più grave, e a mio avviso più probabile, di malafede. E l’urgenza in questo frangente è evidente visto che la tensione tra Governo e Bankitalia si sta estendendo anche alla questione delle riserve auree di proprietà dello Stato e gestite dall’istituto. L'esecutivo vuole stilare una legge per cancellare ogni dubbio sulla potestà dell’oro, che diventerebbe così soggetto alle procedure parlamentari previste dalle leggi costituzionali. Lo scopo è quello di evitare che parte della quarta riserva di lingotti mondiale, pari a 2451,8 tonnellate, possa essere preda delle mire degli altri stati europei per il pagamento dei crediti in caso di rottura dell’eurozona. Questa possibilità infatti non può essere esclusa fino a che questo oro è ambiguamente gestito dai funzionari di Bankitalia, che potrebbero addirittura usarlo come moneta di scambio per ottenere qualche prestigioso e ben pagato incarico in uno scenario post rottura.

Come al solito, dobbiamo constatare con amarezza che i nervi tesi, le voci indispettite e gli striduli lamenti in difesa dell'ancien régime non sono altro che il frutto di un timore personalistico. Il rischio è quello che, qualora si riesca a iniziare a intaccare delle poltrone, si inneschi un effetto domino sulle molte posizioni faticosamente ottenute dai mandarini di Stato. Che di nazionale, alla fine della fiera, hanno solo lo stipendio e mai l’interesse.

 

Fonti

[1] Intervista a Claudio Borghi dell'11 febbraio 2019.

[2] L’unico precedente simile si è avuto durante il primo Governo Berlusconi del '94. In quel caso il governo si oppose alla nomina di Desario a Direttore Generale. La situazione si sbloccò dopo tre mesi, quando il Governo cambiò idea e infine approvò la proposta dell'allora governatore Fazio.

[3] Pagina Wikipedia dedicata al salvataggio interno (in inglese bail in)Si ricordi che la norma sul bail in fu approvata in sede europea poco dopo che la Germania aveva salvato le proprie banche sofferenti con un'iniezione di quasi 250 miliardi di euro pubblici. Inutile dire che, a distanza di pochi mesi dall'intervento, la Merkel si schierò fra gli strenui sostenitori della normativa.

[4] La celebre frase viene spesso erroneamente attribuita a un noto protagonista della politica italiana recentemente scomparso.

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