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“La pena che i buoni devono scontare per l'indifferenza alla Chiosa Pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi.”

Socrate

L'Unione colpisce ancora

L'UE pratica l'austerità al pianeta Alderaan.

La tempesta finanziaria in cui si è trovata Piazza Affari nell’ultima settimana ha avuto un’eco clamorosa su tutti i media italiani: da giorni quasi tutti i commentatori, stracciandosi le vesti come novelle prefiche, celebrano il rito funebre di decine di miliardi bruciati dalle fluttuazioni della borsa “con cui si sarebbe potuto finanziare non uno ma ben due redditi di cittadinanza”. A parte che non è ben chiaro in che modo questi fantomatici miliardi avrebbero potuto rimpolpare la spesa pubblica trattandosi di quattrini di investitori privati, il vero problema è un altro: in mezzo a molte minuziose descrizioni degli scenari apocalittici in cui il bel paese starebbe per addentrarsi, nessuno (o quasi) ha provato a interrogarsi seriamente sulle cause della situazione attuale.

Stando alla vulgata, infatti, il fuggi fuggi degli investitori da Piazza Affari sarebbe dovuto al rischio Grecia cui va incontro il nostro paese dopo l’approvazione della nota di aggiornamento al DEF. Poco importa osservare che i parametri di Maastricht e del Patto di Stabilità sono stati ampiamente rispettati (il 2,4% è insindacabilmente minore del 3%) o che i moltiplicatori impiegati nella manovra sono la metà di quelli impiegati dal prudentissimo Padoan nel 2016 e 2017: lo spettro di Atene aleggia su tutte le prime pagine, corroborato quotidianamente dalle uscite al vetriolo dei commissari europei che invocano i solenni voti del fiscal compact.

Ma siamo davvero sicuri che sia proprio questa diffusa paura del default la vera ragione dietro ai decimali negativi registrati dalla FTSE MIB nell’ultima settimana? Uno dei pochissimi giornalisti economici che ha provato a fornire analiticamente una risposta alla domanda è Morya Longo sul Sole 24 ORE [1]. Longo ha valutato l’andamento del prezzo dei Credit Default Swap, che sono in soldoni delle assicurazioni volte a coprire i risparmiatori dal rischio di insolvenza di un debitore (nel nostro caso lo Stato) o dal rischio di ridenominazione di un debito. Confrontando l’evoluzione temporale dei prezzi di questi due tipi diversi di CDS, emerge chiaramente come l’eventualità che l’Italia torni alla lira sia ritenuta dagli investitori ben più probabile di quella che finisca gambe all’aria.

Ma anche senza dover ricorrere alle pregevolissime analisi di cui sopra, basta e avanza ripensare alla storia recente per capire che il fallimento di uno Stato è qualcosa che tutti sono interessati ad evitare, a maggior ragione coloro che verso quello Stato detengono fior fior di crediti. Il caso della Grecia fa scuola in questo senso: una nazione il cui bilancio pubblico era in condizioni devastanti, imparagonabili alle nostre, è stata tenuta a galla dall’UE per salvare gli investimenti in titoli di stato delle banche dell’eurozona, prevalentemente tedesche e francesi [2]. Tralasciando il fatto che negli anni del “salvataggio” greco ad opera della Troika le sole banche tedesche hanno avuto modo di realizzare sui titoli ellenici plusvalenze per oltre il miliardo di euro a rischio zero, quel che si può desumere senza troppe dietrologie è che nessuno, ma proprio nessuno, voleva tastare con mano la portata dell’effetto domino innescato da un eventuale default di Atene. Che, ricordiamolo, vanta un PIL di un’ordine di grandezza inferiore a quello nostrano. Non servono quindi grandi competenze macroeconomiche per capire che la possibilità di fallimento della seconda potenza industriale europea, che si andrebbe a ripercuotere su banche e holding di mezzo mondo, è da considerarsi quanto meno remota.

Ben altro discorso invece merita lo scenario dell’uscita dall’euro: chi scrive la reputa un’evenienza improbabile ma sarebbe sbagliato escluderla a priori dal ventaglio dei panorami futuri. Del resto, quale occasione migliore di questo attrito con l’Unione per attuare il tanto sussurrato piano B di Savona? Cosa garantisce ai risparmiatori di non svegliarsi dopo un fine settimana di meritato riposo con il conto in banca in lire? Paradossalmente, la risposta a questa domanda è la NADEF 2018. In questo momento infatti sono proprio le politiche espansive contenute nella manovra l’unica garanzia per la tenuta dell’euro nello stivale. Proseguire la via dell’austerità, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, causerebbe davvero un colasso dello stremato sistema Italia. Con conseguenze catastrofiche, va da sé, per la solidità di tutta l’eurozona.

Tanto per citare lo stesso Ministro degli affari europei, ospite qualche giorno fa di Bruno Vespa:
“Cara Commissione Europea, i tuoi modelli sono sbagliati. Perseguire con il pilota automatico la stabilità finanziaria prevista dai trattati porterà l'Italia e l'intera eurozona a sbattere contro un iceberg, ma soprattutto consegnerà l'eurozona nelle mani dei sovranisti che tu affermi di voler combattere. Ti sto offrendo il più importante salvagente della tua vita, abbi la capacità di comprenderlo.”

Non si direbbero certo le parole di un sovversivo mangia-eurocrati, anzi a risentirle sembrano posizioni piuttosto concilianti e ragionevoli. Verrebbe quasi quasi da chiedersi il perché del muro contro muro imposto da Juncker nelle dichiarazioni serrate dei giorni scorsi.

La risposta a questo interrogativo non è univoca, anzi vanta diverse sfaccettature. Purtroppo nessuna che mi venga in mente è particolarmente confortante. Una prima considerazione da fare ha matrice politica: il Presidente della Commissione, conscio dell'impossibilità di piegare direttamente un governo poco gradito a Bruxelles ma di largo consenso popolare, vuol cuocere i rappresentanti italiani con il fuoco lento dello spread. Naturalmente così facendo innesca dei movimenti del mercato (come il fuggi fuggi da Piazza Affari di cui sopra) che costituiscono i presupposti ideali per una potente attività speculativa. E qui veniamo subito a una seconda interpretazione dei toni duri del caro Jean-Claude, di stampo più schiettamente economico. Sia chiaro che nessuno in questa sede sta urlando al complotto denunciando una presunta combutta fra Juncker e i finanzieri di mezzo mondo raccolti sotto chissà quale egida. Semplicemente è naturale che le uscite categoriche dell'ex primo ministro lussemburghese costituiscano un segnale molto esplicito per gli affaristi dello stock market, tanto pronti a cedere titoli italiani quando la tensione tra Roma e Bruxelles è alta quanto poi preparati a ricomprare una volta ricomposta la frattura. 

Ahimè, tutta questa situazione non fa altro che mettere in luce la natura ormai degenerata delle istituzioni europee, ridotte per l'ennesima volta a meri organi di rappresentanza dei grandi potentati bancari e speculativi. Forse prima di preoccuparci che i ruoli di spicco dell'Unione siano o non siano assidui frequentatori nottetempo di baretti ed enoteche, dovremmo accertarci che non entrino ed escano alla luce del sole dagli sgargianti palazzi di vetro del Capitale finanziario. 

 

Fonti

[1] Euro, Italexit è la vera paura dei mercati: lo dicono i Cds

[2] Altro che salvataggio. Gli aiuti alla Grecia sono finiti quasi tutti alle banche

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